lunedì 2 marzo 2015

Silvio Berlusconi: 40 anni di conflitto d'interessi



da: Lettera 43

TeleMilano nel 1974, l'impero pubblicitario di Mediaset e le leggi ad aziendam. Ora l'offerta per la Rai. Storia di un'anomalia italica. Con la sinistra spettatrice.
di Massimo Del Papa

Piccola storia dell'emittenza privata in Italia e di un conflitto d'interessi diventato concerto.
In principio fu la sentenza della Corte costituzionale 28/7/1976 n. 202.
In sintesi, la pronuncia riservava allo Stato l’emittenza su scala nazionale; riprendeva la precedente sentenza (10/7/74 n. 226) che sanciva la libertà d’intrapresa televisiva in ambito locale via cavo, ampliandola all’etere.
Ribadiva di riconoscere ai privati il diritto soggettivo a trasmettere, nell’ambito della regola generale che imponeva una autorizzazione statale a installare ed esercitare impianti di diffusione televisiva.
Precisava che l’etere, essendo «una risorsa collettiva», non poteva venire inteso come prateria da far-west.
Di conseguenza, sollecitava alle Camere una legge che disciplinasse l’intera materia, precisando il limite della raccolta pubblicitaria che alimentava l’emittenza locale e privata e definendo con precisione il concetto di «ambito locale».

IN PRINCIPIO FU TELEMILANO. In questi due corridoi, Silvio Berlusconi s’infilò al gran galoppo.
L'origine sta in TeleMilano Canale 58, solo una delle oltre 400 emittenti private che affollavano l’etere già da qualche tempo con programmi pionieristici.
L'idea a Berlusconi la diede il vulcanico marchigiano Alceo Moretti, una vita nell'emittenza privata, soprannominato «testa a sonagli» da Sergio Zavoli.
TeleMilano però, a differenza delle altre televisioncine, aveva già una buona dotazione tecnica, Berlusconi l'aveva concepita per allietare via cavo le serate dei neoinquilini di Milano 2, pensando però già in grande.
COMPRÒ DA PAPÀ GALLIANI. All’inizio del 1979 creò Reteitalia, in settembre Publitalia, quindi rilevò metà dell’Elettronica Industriale, fondata dal padre di Adriano Galliani.
Con TeleMilano facevano quattro società, quattro gambe sulle quali l’avventura televisivo-pubblicitaria poteva cominciare a trotterellare per poi mettersi a volare.

La filosofia: il mezzo (pubblicitario) era il messaggio e viceversa
Berlusconi creò il proprio parco programmi e c’infilò dentro, a pagamento, la pubblicità: nella sua filosofia il mezzo (pubblicitario) era il messaggio e viceversa: «Io», sosteneva, «non vendo spazi, vendo vendite».
Il gioco gli riuscì a tal punto che in breve Canale 58, ormai Canale 5, riuscì ad attrarre sempre più televisioni locali nella sua orbita: Canale 5 vendeva programmi + pubblicità, alle emittenti minori restavano briciole di programmi e di spot.
La chiave di tutto era la raccolta pubblicitaria, l’homo-Publitalia (che poi diventò l’homo-Forzitalia).
FAGOCITÒ I CONCORRENTI. Berlusconi fagocitò uno dopo l’altro i concorrenti più grossi (i piccoli li neutralizzò stringendoli in sindacato).
L’ossatura del network la imbastì Adriano Galliani, erede dell’Elettronica Industriale acquisita per metà da Berlusconi, il quale risalì la penisola dalla Sicilia fino in Piemonte facendo incetta di frequenze e/o di piccole emittenti.
30 MILIONI DI TELESPETTATORI. Sul finire del 1980, a Canale 5 facevano capo 25 emittenti regionali ed erano calcolati in 12 milioni gli italiani in grado di ricevere le immagini irradiate da queste emittenti, con un potenziale d’ascolto di oltre 30 milioni di telespettatori.
Verificato che la resistenza pubblica alla sua ascesa era cedevole, il Cavaliere ci riprovò un paio di stagioni dopo offrendo alla Figc un rilancio clamoroso per i diritti delle partite dei maggiori campionati nazionali: 16 miliardi per la stagione 1981-82, laddove la Rai ne pagava 2,6 (in questo periodo si cominciava a ventilare l'acquisto di una squadra di calcio milanese).
LIQUIDITÀ OLTRE OGNI LIMITE. Il che la dice lunga sulla strategia e sulla disponibilità finanziaria necessaria, quel flusso di denaro liquido «oltre ogni merito creditizio» di cui parlò Tina Anselmi, quale presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2.

Graduale e implacabile annessione delle concorrenti
Di pari passo procedeva l’annessione delle concorrenti.
Nel 1982 i circuiti con parvenza di network erano tre: oltre a Canale 5, Italia 1, con 18 emittenti locali, di cui 4 di Rusconi e 14 affiliate; e ReteQuattro (23 emittenti, 4 di Mondadori, le altre affiliate).
I due circuiti rispettavano, almeno formalmente, la sentenza della Consulta.
DIFFERENZA DI MEZZI. Berlusconi operò diversamente: Canale 5 trasmetteva già in tutta Italia tramite un reticolo di emittenti tutte di proprietà e dal segnale più nitido rispetto ai competitori, vincolati ai collegamenti con le collegate, le quali trasmettevano con mezzi arrangiati.
E Canale 5, di colpo, risultò la più seguita delle emittenti non pubbliche, anni luce avanti ai rivali e addirittura a ridosso di RaiDue.
SOMME SBALORDITIVE. I tempi erano maturi, i liquidi non mancavano: tra il 1982 e il 1984 Berlusconi annetté a Fininvest, pagando sull’unghia somme sbalorditive, Italia 1 (costata quasi 80 miliardi di lire), cedutagli da Rusconi (il quale denunciò poi il «flusso illimitato di denaro per Fininvest, con la quale noi non potevamo competere»), e Rete 4 (135 miliardi) da quella Mondadori cui si preparava a dare l’assalto.
Intanto la legge che doveva riempire i “buchi” normativi sull’emittenza privata veniva sistematicamente bloccata.
L'APPELLO ALL'ART. 21. Quando tre pretori nel 1984 reagirono, non oscurando - come erroneamente si è spesso sostenuto - le televisioni Fininvest, bensì imponendo la diffusione locale, come da sentenza della Consulta, il Cavaliere, forte dell'amicizia col premier Bettino Craxi, che fermò i pretori, rispose con una rabbiosa campagna mediatica appellandosi all’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
CAMPAGNA DI COSTANZO. Un polverone che tornò a sollevarsi nove anni dopo, quando, per contrastare la direttiva Cee che limitava la sponsorizzazione dei programmi tivù, di cui le emittenti berlusconiane avevano abusato al punto da rendere l’etere italico un autentico far west, Maurizio Costanzo riesumò dall'armamentario sessantottino il motto: 'Vietato vietare', aizzando i telespettatori a sommergere il ministero delle Poste di telegrammi con lo stesso slogan.

L’anomalia Fininvest diventò «transitoria» nel giugno 1985
I network a metà Anni 80 erano realtà: Berlusconi realizzò ponti radio come la Rai, però non “strutturali”: “funzionali”, come tali non sanzionabili dalla sentenza della Corte costituzionale.
Era un cavillo di Troia. Ma bastò a chi manovrava i rubinetti dell’etere.
L’art. 192 del Codice postale era altrettanto volatile, l’anomalia Fininvest diventò «transitoria» nel giugno 1985, dopo che il Pci aveva disinnescato in parlamento, facendo mancare il numero legale, la decadenza dei decreti Craxi, che sanavano l’illiceità berlusconiana, il precedente novembre.
IL 'BUONISTA' VELTRONI. Il più “buonista” di tutti fu il giovane Walter Veltroni, dirigente comunista con delega alla Comunicazione.
Arrivò in seguito la legge Mammì a fotografare l’esistente, cioè tre reti televisive ma senza la proprietà di alcun quotidiano (ceduto fulmineamente da Silvio al fratello Paolo), e, soprattutto, i tetti per la raccolta pubblicitaria che già esistevano.
MAMMÌ, INCHIESTE E ARRESTI. La legge Mammì, proprio nel 1990, dopo un iter tribolatissimo che portò anche inchieste e arresti, fiorì stabilendo quanto segue: nessuno può avere più di 3 reti nazionali; nessun quotidiano per chi ha 3 reti, fino all’8% della tiratura per chi ne ha 2, fino al 16% per chi ne ha una, fino al 20% per chi non possiede televisioni; sono consentite 3 interruzioni pubblicitarie per ogni film con possibilità di una quarta in caso di opere particolarmente prolungate; la diretta viene concessa anche alle tivù private e così il diritto all’informazione, che conferisce a ogni rete nazionale l’onore-onere di trasmettere un suo telegiornale.
MANTENUTO LO STATUS QUO. In altre parole, la Mammì cristallizzò lo status quo a tal punto da venire platealmente sconfessata 4 anni dopo da una sentenza della solita Corte costituzionale, che peraltro si richiamava a una precedente sentenza, proprio del 1990, rimasta ad aleggiare come una spada di Damocle su un parlamento indifferente: si ribadiva che l’emittenza privata poteva avere solo carattere locale.
Quattro anni più tardi, la Consulta ribadì che la legge Mammì era incoerente, irragionevole, e che si limitava a legittimare una situazione in cui, di fatto, tre reti erano già gestite dallo stesso soggetto.

Nel 1997 il primo ordine: Rete 4 vada sul satellite

Nel maggio 1997 il Senato approvò la legge del ministro alle Poste Antonio Maccanico, che - recependo la pronuncia costituzionale in materia - ordinò a Mediaset di trasferire su satellite Rete 4; ma solo quando la competente Authority, organismo contestualmente istituito, di natura partitica e dunque controllato anche dal controllando Berlusconi, decise che in Italia esisteva «un congruo numero» di impianti per captare l’emittente spostata.
Anche questa norma venne stroncata dalla Corte costituzionale.
UN AFFIDAMENTO CIECO. Nell'aprile del 1998, con voto unanime della Camera (a maggioranza di centrosinistra) passò una proposta di blind trust che lasciava tutto come stava: un affidamento così “cieco”, che, secondo il politologo Giovanni Sartori, l'interessato, sapendo benissimo cosa possedeva, non aveva bisogno di essere miracolato.
Più o meno nello stesso periodo, nello stesso regime ulivista, venne soffocata la proposta Passigli (blind trust quando applicabile o alienazione del bene “conflittuale”), col contributo decisivo di D'Alema («Berlusconi il conflitto d'interessi lo deve risolvere da sé»).
LE GARANZIE DI VIOLANTE. Anni dopo, Luciano Violante rivelò: «Avevamo dato garanzia a Berlusconi che non avremmo toccato le sue televisioni».
Nel 1999 nuovo colpo di scena: il presidente del Consiglio, che incidentalmente era il postcomunista D’Alema, pareva deciso a risolvere una volta per tutte la faccenda del conflitto d’interessi e delle frequenze da redistribuire: aveva indetto una gara per l’assegnazione delle concessioni delle reti nazionali, la cui commissione era presieduta da un avvocato di Mediaset.
In luglio arrivò l’attesissima gara d’appalto, per partecipare alla quale erano stati stabiliti requisiti strategicamente restrittivi.
La sinistra provò a rifarsi una verginità nel 2001 con la proposta Dentamaro, sapendo benissimo che era tardi, che la sua permanenza al potere si era esaurita.
FRATTINI LO ISTITUZIONALIZZÒ. Nel 2002 la legge Frattini, che di fatto risolveva il conflitto d’interessi istituzionalizzandolo, non venne neppure approvata in via definitiva: bastò lo spauracchio, e bastò fino alla metà del 2003, quando passò alla sola Camera in contemporanea con la riforma “di riassetto” del sistema televisivo votata al Senato.
La trovata prevedeva un paradosso: i membri del governo potevano essere «meri proprietari» d’imprese, inclusi i mass media, ma non potevano gestirle; erano previste sanzioni verso chi usava le cariche pubbliche per uso personale, fino alla revoca delle concessioni televisive; il controllo spettava all’Antitrust e all’Authority delle telecomunicazioni.
Tradotto: Berlusconi a Palazzo Chigi poteva starci con tutte le sue tivù, Fedele Confalonieri invece no.

Il messaggio di Ciampi sul pluralismo rimasto lettera morta

Il presidente Ciampi sul pluralismo mandò un patetico messaggio alle Camere, che manco a dirlo rimase lettera morta (cosa che gli venne aspramente rimproverata, fra gli altri, dal solito Sartori).
La Consulta spese le ultime pronunce per ribadire che il panorama s'era ulteriormente inaridito: «Dalla previsione di 12 reti nazionali (di cui 9 private) si è passati a 11 reti (8 private)».
Mentre la sinistra insisteva confondendo a lungo ineleggibilità, in sé ininfluente, con incompatibilità, che era quella da cui discendeva la mutazione dell'impero da economico a politico.
STERILIZZATA LA7. Intanto, l'emergente La7 venne sterilizzata o, se si preferisce, strozzata in culla: la sua paralisi diventò merce di scambio fra reciproci vantaggi di natura politico-industriale fra Berlusconi e Tronchetti Provera.
Soltanto anni dopo, la rete-materasso riuscì a uscire dall'impasse, ricavandosi un suo spazio, mai troppo grande, puntando su una informazione dinamica e spesso aggressiva, per non dire schierata.
LA ZAMPATA DI GASPARRI. A quel punto, il Berlusconi proprietario del network televisivo tripartito era nuovamente capo del governo: nel 2004 il ministro Gasparri concepì una legge di sartoria che ipotizzava un pluralismo catodico in digitale di lì a 10 anni, lasciando a Mediaset l’agio di ingrandirsi ulteriormente; mentre il decollo su satellite della sua terza rete, Rete 4, senza concessione ormai dal 1999, ribadito nel 2002 dall’ennesima pronuncia della Consulta, venne di fatto procrastinato al 2006.
Lo stesso meccanismo del Sistema integrato delle comunicazioni - che permetteva di raccogliere fino al 20% di un mercato pubblicitario tendenzialmente infinito - la Gasparri lo escogitò anche a proposito delle reti digitali, cui per essere tali era richiesta la copertura di appena la metà della popolazione nazionale (contro il più sensato 80% del territorio, stabilito dalla l. 249/97): così, l’identico limite del quinto di reti possedute da un solo soggetto imprenditoriale finì per rapportarsi a una totalità pressoche sconfinata.
BARRIERE ALL'ENTRATA. Ma non era tutto: tra i benefici effetti della Gasparri non va trascurata la sanatoria degli sfondamenti dei tetti pubblicitari contestati a Mediaset (e Rai) dal Garante delle comunicazioni negli anni 1999 e 2000 - e nelle stagioni successive. Completò il quadro la invalicabile barriera all’entrata del sistema televisivo prevista dalla legge, che, oltre a limitare il numero delle frequenze, impedì di acquisire frequenze digitali a chi non era già operatore analogico.

La sinistra italiana che ben si guardò dal risolvere il problema
Nel 2009 in Italia partì una rivoluzione digitale che molti giudicarono sorpassata rispetto agli attuali standard tecnologici dell'emittenza televisiva, basati non sul macchinoso e costoso decoder, ma direttamente via banda larga.
Negli anni seguenti, a dispetto di polemiche di facciata, la sinistra si guardò dal pensare di tentare di risolvere l'anomalia italiana (la proposta Gentiloni era una presa in giro: l'ex capo della vigilanza Rai, il democratico Petruccioli, diventò presidente della Rai previo passaggio a casa di Berlusconi, dal quale ottenne il placet).
IN CAMPO LA7 E SKY. La storia di oggi parla di un terzo polo, La7, rimasto vaso di coccio, di una Sky che solo a inizio 2015 è uscita allo scoperto su digitale terrestre, affittando 5 canali da Telecom Italia, mentre un nuovo presidente di centrosinistra, Matteo Renzi, vuole ridefinire il servizio pubblico, non senza interferenze e accuse specie da sinistra.
Berlusconi, intanto, svincolato dal patto del Nazareno, ha sferrato l'attacco alla Rai con un’offerta pubblica di acquisto e scambio su Rai Way lanciata attraverso la sua omologa società, Ei Towers.
SFIDA DA OLTRE 1 MILIARDO. Una sfida da 1,22 miliardi di euro per creare un polo nazionale unico dell’infrastruttura televisiva da 5 mila antenne, come già accade in Francia, Inghilterra, Spagna, utile anche a  «svolgere un ruolo rilevante anche nel settore delle telecomunicazioni», è scritto nella nota che annuncia l’operazione.
Una operazione che, di fatto, renderebbe Berlusconi socio della Rai, beatificando il conflitto in concerto.
Dai primi passi di TeleMilano canale 58 sono passati 40 anni.

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