da: La Stampa
Se una piccola lezione si può trarre dalla
tragedia innescata dal pilota kamikaze è la precarietà di certi pregiudizi
sedimentati nei secoli. Col passare delle ore emerge un quadro di
superficialità e approssimazione assai poco tedesco. Andreas Lubitz era andato
al lavoro stracciando un certificato di malattia, e questo rientra ancora nel
luogo comune che immagina un italiano fare esattamente il contrario. Ma com’è
possibile che l’ospedale universitario di Duesseldorf, che lo aveva in cura da
mesi, non avesse sentito il dovere di cautelarsi inviando alla compagnia aerea
una copia del documento che gli impediva di volare? La privacy, dicono. Ma la
privacy smette di essere la priorità, quando riguarda un uomo che ha in mano il
destino di vite che non sono la sua. Per quanto, secondo i giornali tedeschi,
Lufthansa qualcosa sapeva. Sapeva che nel 2009 una crisi depressiva aveva reso
Lubitz «parzialmente inadatto al volo». Ma cosa significa «parzialmente»? Che
poteva volare solo nei giorni dispari o con la mano destra?
Dalle prime ricostruzioni della tragedia
affiora una trama fitta di smagliature: informazioni mancanti, negate,
sottovalutate. Adesso si invocano regole nuove, ma come sempre sarebbe bastato
rispettare quelle esistenti. O forse non
sarebbe bastato comunque. Visto
dall’Italia, patria del fatalismo, il dramma che ha colpito un popolo noto per
la sua rigidità alimenta la sensazione che alla fine siamo tutti umani, e che
lo siamo allo stesso modo: imperfetto e irrazionale. Costretti a convivere, e
talvolta purtroppo a conmorire, con i nostri limiti e le nostre miserie.
Come è facile accusare chi non può difendersi! Rivestirlo d'accuse (vestirlo di porpora), cingerlo di colpe (il capo di corna). Così certi dei vostri "giudizi". Allo stesso modo "giudicati".
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