Due osservazioni, in particolare, condivido
e sottoscrivo dell’articolo di Ainis: non possiamo andare avanti con un
parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato e che i cittadini
italiani non possono essere trattati come ospiti nella casa delle istituzioni. Perché
nel referendum che Renzi e Boschi ci “concedono” per esprimerci sulla riforma
costituzionale, noi saremo l’ospite che potrà solo decidere di entrare o uscire
di casa ma non potrà spostare neppure un soprammobile.
La solita presa per il culo degli italiani
da parte di Renzi, malato di voglia di plebiscito.
da: Il Corriere della Sera
Non c'è due senza tre. Dopo il voto estivo
da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong
della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà
saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la
seconda approvazione. None finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già
finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti
emendate dalla Camera, non sull'universo mondo. Perché dopo d'allora il timbro
finale di deputati e senatori sarà un lascia
o raddoppia, senza più correggere
una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al
referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro
torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.
Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo
vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza
Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che
promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto
positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza
accorgersi che magari s'offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68
ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è
mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un pò sguaiate. E troppe parole
inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l'articolo 70 — che
regola la funzione legislativa — s'esprime con 9 parolette; dopo quest'iniezione
ricostituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c'è che
dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione.
Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È
necessaria, invece, e per almeno due
ragioni. In primo luogo per un'istanza di legalità, benché nessuno ci
faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità
costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due
Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un
modo o nell'altro. Non possiamo andare
avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato.
Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia
incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine,
se la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è altrettanto necessaria
una cura di semplicità, per la politica
e per le stesse istituzioni. C'è un che d'eccessivo nell'arsenale di
strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni:
almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C'è un
eccesso nella doppia fiducia di cui
ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle
volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo
imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In
ultimo, è eccessiva l'officina delle
leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.
Ma i
guai s'addensano quando dai principi
filosofici si passa alle regole
concrete. Così, la riforma elenca 22
categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta
d'un terzo dei suoi mèmbri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può
disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta.
Insomma, non è affatto vero che la
riforma renda meno complicato l'iter legis. E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo,
l'unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché
insieme al Parlamento barcolla il capo
dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario
delle crisi di governo, nonché — di fatto — il potere di decidere
l'interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione che s'accompagna
alla riforma. Servirebbero maggiori
contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c'è (come i cenni a uno statuto
delle opposizioni, l'argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta
sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei
riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più
da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando
il suo portone all'accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare
il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d'appellarsi a un
referendum, quando ravvisi in una
legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in
conclusione vorremmo che l'elettore non
fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l'ospite potrà
solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un
soprammobile. Intanto sta sull'uscio, guardando dal buco della serratura.
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