da: Il Post
La
morte di Nicola Calipari, 10 anni fa
La
storia dell'agente segreto italiano ucciso da un militare americano mentre
scortava la giornalista Giuliana Sgrena, appena liberata da un sequestro a
Baghdad, tra teorie del complotto e casi diplomatici
Il 4 marzo di dieci anni fa, nel 2005,
Nicola Calipari morì mentre stava scortando la giornalista del Manifesto Giuliana
Sgrena all’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Calipari era un agente del SISMI,
cioè dei servizi segreti militari italiani (dal 2007 non esiste più, sostituito
dall’AISE: Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna). Sgrena è una giornalista
del Manifesto che un mese prima, il 4 febbraio, era stata rapita da
un gruppo jihadista iracheno.
Dopo aver superato diversi posti di blocco,
a meno di un chilometro dalla pista dell’aeroporto, la macchina con a bordo
Sgrena e Calipari fu colpita dai militari di un posto di blocco statunitense.
Calipari morì subito. Le ricostruzioni di Stati Uniti e Italia su quanto
accaduto arrivarono a conclusioni diverse. Nel giugno del 2008 una sentenza
della Corte di Cassazione italiana confermò comunque la “non-giudicabilità” del
marine che aveva sparato, Mario Lozano. Una Corte statunitense aveva
riconosciuto a Lozano la cosiddetta “immunità funzionale”.
Ma è una storia più lunga e articolata di
così.
Dal
rapimento alla liberazione
Il 20 marzo del 2003 l’Iraq fu invaso da una “coalizione di
volenterosi”, come la definì l’allora presidente statunitense George W. Bush,
formata soprattutto da Stati Uniti e Regno Unito ma anche dall’Italia.
L’obiettivo dichiarato era deporre Saddam Hussein, accusato di nascondere e
sostenere militanti di al Qaida e di possedere armi di distruzione di massa. La
guerra durò solo pochi mesi: il 13 dicembre 2003 le truppe della coalizione
catturarono Hussein in un bunker sotto terra vicino a Tikrit, 140 chilometri a
nord-ovest di Baghdad, che era stata presa qualche mese prima. I soldati
americani rimasero però a lungo in Iraq (il ritiro definitivo è avvenuto nel
dicembre del 2011) non più per sconfiggere un regime nemico, ma per combattere
la guerriglia, controllare il territorio e metterlo in sicurezza. Meno di due
anni dopo l’inizio dell’invasione, venerdì 4 febbraio 2005, l’inviata del Manifesto a
Baghdad Giuliana Sgrena fu rapita. I primi giorni dopo la diffusione della
notizia sono stati raccontati sul Manifesto di ieri:
«La
notizia piomba come un drone nel via vai della redazione, allora in via Tomacelli:
Giuliana Sgrena, inviata del manifesto in Iraq è stata rapita a Baghdad. Malgrado
lo sconcerto, si ricostruiscono le ore di Giuliana precedenti al sequestro,
si contatta la Farnesina, circolano ipotesi e timori. Il gruppo Organizzazione
per la Jihad islamica rivendica il sequestro via internet e intima
all’Italia di ritirare le truppe dall’Iraq entro 72 ore. La redazione si riempie
di colleghi e telecamere. Il giorno dopo, secondo comunicato di rivendicazione,
sempre via internet, reca la firma di una Organizzazione della Jihad di Rafidain.
Minaccia di uccidere l’ostaggio se il governo italiano, «il cui capo è il criminale
Berlusconi», non annuncerà il ritiro dall’Iraq «entro 48 ore». In serata, un
«ultimo» comunicato della Jihad, in attesa che la «commissione giuridica»
decida in tempi brevi la sorte di Giuliana Sgrena. Poi 15 giorni di appelli e
di attesa. Da Baghdad, si fa sentire il Consiglio degli Ulema sunniti per
chiedere la liberazione della giornalista e per bollare come “irragionevoli”
le richieste dei suoi rapitori. Al Jazeera diffonde un comunicato del
gruppo di Abu Musab al-Zarqawi che nega ogni responosabilità nel rapimento.
La Jihad islamica annuncia che Giuliana Sgrena non è considerata una
spia, quindi sarà liberata».
Il Manifesto cominciò
in quei giorni a lavorare per documentare il lavoro di Sgrena, che era
pacifista e che fin dall’inizio aveva preso posizione contro la guerra in Iraq.
L’allora direttore del Manifesto, Gabriele Polo, registrò un appello per
la liberazione. Il 10 febbraio i rapitori diffusero un comunicato dando
un nuovo ultimatum al governo italiano: 48 ore di tempo per annunciare il
ritiro dall’Iraq. Il 15 febbraio anche Franco Sgrena, il padre di Giuliana,
diffuse un appello per chiedere notizie della figlia. Il giorno dopo la
televisione al Arabiya trasmise un video che mostrava Giuliana
Sgrena rivolgersi in italiano e in francese al suo compagno e agli italiani:
«Aiutatemi, aiutatemi, la mia vita dipende da voi, fate pressione sul
governo italiano perché ritiri le truppe».
Il 23 febbraio l’allora Presidente della
Repubblica Carlo Azeglio Ciampi chiese la liberazione di Giuliana Sgrena. Il
4 marzo al Jazeera annunciò la sua liberazione.
Ancora il Manifesto:
«Mentre
la stampa raccoglie i commenti di famigliari, sindacati e uomini politici,
mentre in redazione si sta già procedendo a un brindisi e si aspetta il
ritorno di Giuliana, arriva però un’ultima doccia fredda: una telefonata al
direttore Polo annuncia la morte di Nicola Calipari, il funzionario del
Sismi che ha fatto scudo col suo corpo per proteggere la giornalista
liberata. Anche Giuliana è rimasta ferita sull’auto presa di mira a un posto
di blocco da soldati Usa, insieme a un altro mediatore (illeso un terzo)».
Il
4 marzo del 2005
Nicola Calipari era nato a Reggio Calabria
il 23 giugno del 1953. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, nel 1979, si
arruolò in polizia e lavorò come funzionario per oltre vent’anni, fino all’entrata
nel 2002 nel SISMI. Nel SISMI si occupò direttamente di diverse trattative di
ostaggi italiani in Iraq, compresa quella di Giuliana Sgrena. Il 4 marzo del
2005 Sgrena venne a sapere dai suoi rapitori che sarebbe stata liberata in
giornata. Due giorni dopo la liberazione scrisse un articolo per il Manifesto
ricostruendo quelle ultime ore in Iraq:
«Mi
sono cambiata d’abito. Loro sono tornati: “Ti accompagniamo noi, e non dare
segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire”.
Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e
insieme il più pericoloso. Se incontravano qualcuno, vale a dire i soldati
americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e
avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti.
«La
macchina camminava sicura in una zona di pantani. (…) Un elicottero sorvolava a
bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. (…) Poi sono scesi.
Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. (…) Ho appena
accennato mentalmente a una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle
orecchie: “Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con
Gabriele Polo, stai tranquilla, sei libera”. Mi ha fatto togliere la benda di
cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e
che non capivo, ma per le parole di questo ‘Nicola’. Parlava, parlava, era
incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute».
Giuliana Sgrena e Nicola Calipari salirono
sulla macchina che li avrebbe dovuti portare verso l’aeroporto, controllato
dalle truppe americane. A circa 700 metri dall’arrivo, lungo una strada dove si
trovava un posto di blocco statunitense, una raffica di mitragliatrice colpì
l’auto. Nicola Calipari, secondo il racconto di Sgrena, si buttò su di lei per
proteggerla. Fu colpito alla testa e morì sul colpo. A sparare, si scoprì più
tardi, era stato Mario Lozano, addetto alla mitragliatrice al posto di blocco.
Le
ricostruzioni e le inchieste
Giuliana Sgrena ha sostenuto di aver visto
una luce dopo una curva, che l’auto aveva rallentato e che subito erano partiti
gli spari. La giornalista ha sempre detto che non si trattava di un posto di
blocco e che la pattuglia dei soldati americani non aveva fatto alcun segnale per
far fermare l’auto. Sgrena ha inoltre scritto nel suo resoconto che i suoi
sequestratori, poco prima della liberazione, le avevano detto che gli americani
non volevano che tornasse viva a casa. Secondo la versione del governo
statunitense, diffusa qualche mese dopo l’accaduto, l’auto viaggiava invece a
una velocità elevata e i militari del checkpoint avevano seguito una regolare
procedura invitando chi guidava a fermarsi: peraltro nessuno, scrissero, era a
conoscenza dell’operazione condotta dal SISMI né dell’identità delle persone a
bordo di quell’auto. Il rapporto americano concludeva dicendo che quello che
era successo era stato «un tragico incidente». Il rapporto era stato
inizialmente pubblicato online con nomi e informazioni sensibili oscurate. Il blogger
Gianluca Neri su Macchianera aveva però scoperto che gli omissis
potevano essere tecnicamente aggirabili e aveva pubblicato il rapporto completo.
La vicenda da qui in poi si è fatta molto
complicata, tra ipotesi di riscatto, teorie del complotto, retroscena, scontri
diplomatici, video, polemiche e documenti riservati pubblicati da Wikileaks.
Negli Stati Uniti fu istituita una commissione d’inchiesta a cui vennero ammessi,
ma solo come osservatori, anche degli italiani. La magistratura in Italia
dovette far fronte a diverse difficoltà nelle indagini: la zona dove si erano
svolti i fatti era infatti sottoposta al controllo statunitense e gli Stati
Uniti negarono per esempio il permesso di far analizzare ai tecnici della
polizia scientifica italiana il veicolo su cui viaggiavano Sgrena e Calipari.
L’Italia dovette così basarsi esclusivamente sui rilievi compiuti dalle
autorità statunitensi.
Tre
storie sulla morte di Calipari
Nel maggio 2007 il Tg5 mandò in onda un
video di circa 30 secondi girato dallo stesso Mario Lozano poco dopo
l’uccisione di Calipari. Nel video si vede la Toyota Corolla sulla
quale viaggiavano Calipari e Sgrena con le luci accese (gli americani avevano
detto che la macchina viaggiava a fari spenti) e si sente una conversazioni tra
militari americani, tra cui la frase: «Abbiamo un caduto in azione». Inoltre,
il video mostra che la distanza dell’auto dal posto di blocco era di circa 50
metri, particolare che sembrava smentire ancora una volta la ricostruzione
contenuta nel rapporto statunitense. Se l’auto viaggiava a una velocità di 100
chilometri orari, al momento degli spari – considerati i tempi di frenata – il mezzo avrebbe dovuto trovarsi ben
oltre i 150 metri di distanza. I soldati americani hanno invece sempre
sostenuto di aver sparato perché l’auto era molto vicina.
Nel 2010 Wikileaks diffuse un cablogramma
del 3 maggio 2005 firmato dall’allora ambasciatore statunitense a Roma, Mel
Sembler, che raccontava l’incontro tra Sembler e le autorità italiane prima che
venisse diffuso ufficialmente il rapporto italiano sulla morte di Calipari.
Secondo quanto scrive Sembler, il governo italiano voleva “lasciarsi alle
spalle” l’incidente, promettendo agli Stati Uniti che non sarebbe cambiato
nulla sia nei loro rapporti diplomatici, sia nell’impegno italiano in Iraq. Nel
rapporto preparato dalle autorità italiane sull’accaduto si arrivava a
concludere la mancanza di responsabilità individuali e soprattutto si stabiliva
che non c’erano prove sufficienti per pensare a un omicidio intenzionale.
Quest’ultimo punto, continuava Sembler, era pensato appositamente per
“scoraggiare ulteriori indagini dei magistrati, dato che, a quanto pare, sotto
la legge italiana possono indagare casi di omicidio intenzionale contro
cittadini italiani fuori dall’Italia, ma non casi di omicidio non
intenzionale”.
Un’altra storia molto poco chiara e
successiva alla morte di Calipari è quella di Gianluca Preite, ingegnere
informatico che ha raccontato che la sera del 4
marzo intercettò per conto del SISMI una comunicazione satellitare nella quale
si dava l’ordine di sparare contro l’auto su cui c’erano Calipari e Sgrena: la
telefonata citata da Preite, comunque, non fu mai ritrovata e Preite fu accusato di accesso abusivo ad
un sistema informatico e altri reati connessi.
Come
è finita
Nel giugno 2006 la procura di Roma formalizzò
la richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano, con l’accusa di avere
commesso un “delitto politico che legge le istituzioni dello stato italiano”.
La procura di Roma presentò anche richiesta per una rogatoria
internazionale, respinta dagli Stati Uniti. Nell’ottobre del
2007 la Terza Corte d’Assiste di Roma decise di assolvere Lozano, a causa di un
difetto di giurisdizione (la giurisdizione penale delle forze multinazionali in
Iraq era dei paesi d’invio, si disse). Nel giugno 2008 la Corte di Cassazione
ha riconosciuto la cosiddetta “immunità funzionale” a Lozano e ha quindi
stabilito che il soldato americano non poteva essere processato in Italia.
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