da: Il Fatto Quotidiano – di Alessandro Ferrucci e Stefano Mannucci
Vi mancano i live? Parlate con Noemi. A ogni domanda aggancerà una canzone, con relativa mini-esecuzione privata. “Cantare mi fa stare bene, è una colonna di energia che mi purifica dalle tensioni”. Così, se le chiedeste del primo pezzo intonato da bambina, inizia: “Non so che viso avesse/neppure come si chiamava...”
Guccini
... Avevo sette anni, mia madre conservava un diario della sua adolescenza. Ci aveva scritto i testi de L’Avvelenata o de La Locomotiva. Le sapeva a memoria.
Un imprinting.
Mi sentivo già una musicista. Prendevo lezioni. Chiesi a papà di comprarmi un piano verticale. Ce l’ho ancora in casa (e lo mostra).
Doppio imprinting.
Mio padre era una potenziale star. Suonava la chitarra in un complesso, L’Incontro. Parteciparono a Castrocaro 71 con Barbara. La Fonit Cetra si fece avanti, nonna era contraria.
È toccato a lei esaudire i sogni genitoriali.
Un minuto prima di debuttare in tv a X Factor mi resi conto del guaio in cui mi ero ficcata. Ma dopo la prima strofa la paura era passata. Cantare per gli altri è un privilegio. Pittori e scrittori lavorano in solitudine, la musica ha il valore aggiunto della condivisione.
Che pezzo le aveva assegnato coach Morgan?
Un anno d’amore (lo esegue). Partenza col botto. Possiedo un vinile di Mina, i successi dei suoi primi quattro anni. Se telefonando (canta), La banda (accenna).
Un brano che la spaventa?
Glicine, quella dell’ultimo Sanremo. È complicata, volevo che uscisse bene. Anche per tutto il messaggio di trasformazione psicofisica al centro del mio nuovo album Metamorfosi. Negli ultimi anni ero diventata qualcosa di diverso da me stessa, mi sentivo fuori fuoco, non percepivo i miei obiettivi.
Un passaggio stretto.
La pandemia mi ha offerto l’opportunità di rallentare per farmi ritrovare. Chi non mi conosceva può vedermi cambiata, ma sono tornata come ero.
Affrontando “Glicine” al Festival...
Avevo paura di non cantarla come serviva. È stato fondamentale sentir dire che la mia voce è addirittura migliorata. Io sono la mia voce.
Quando ha capito di aver scoperto spazi inesplorati nella sua voce?
In studio, incidendo Glicine. Nella strofa ho azzardato un falsetto. Mi sono sentita ridicola. Invece il gruppo di lavoro mi ha incoraggiato: un altro brano, Limite, l’ho cantato in una tonalità altissima. Sono entrata nel mio giardino segreto.
Sanremo è stata la prova del fuoco.
Senza pubblico era un’esperienza spiazzante. La prima sera l’ho cantata in faccia a un tecnico Rai. Lui dopo mi ha detto: ‘M’ero quasi convinto di piacerti’. Un trucco che mi aveva insegnato Vasco: ‘Anche davanti a un milione di persone scegline una, trova un appiglio’.
Anni fa lei aprì i concerti di Vasco negli stadi.
Prima di salire sul palco pensavo: “Al tour di Buoni eCattivi: ero in curva, da fan, e ora sono qui sopra”. Fui accolta con amore dai suoi fedelissimi, non era facile. Poi, dopo l’Olimpico, tornai a casa a pulire i vetri.
I vetri?
Non devi perdere il contatto con le piccole cose. Portare a spasso il cane, pulire le stanze. Questo è un mestiere basato sulla casualità, non puoi darlo per scontato. Però mi risparmiai i piatti.
In che senso?
Avevo promesso a Vasco e a Curreri che avrei lavato i loro piatti se avessero scritto un brano per me. Arrivò Vuoto a perdere (canticchia) ma quei due, da gran signori, mi esentarono dal vincolo.
Premesso che parlava di un amico bianco, Vasco potrebbe scrivere oggi una cosa come ‘S’è portata a casa il negro la troia’?
Temo di no, anche se pure in quegli anni Colpa d’Alfredo gli causò grane. Oggi è peggio, siamo più razzisti, e il corpo della donna resta un tema sensibile. Abbiamo perso l’autoironia, che è nel Dna degli italiani. Siamo dentro una commedia che non fa più ridere.
Vasco, Curreri, Moro, Fossati, Masini, ora Neffa. Uomini che l’hanno aiutata a cantare la sua natura femminile.
Uomini che amano le donne e che sanno scriverne grazie alla presa di distanza.
Ora chi le piacerebbe?
Vorrei cantare un brano scritto da Samuele Bersani.
A un certo punto lei si trasferì a Londra.
Il disco nato lì, Made in London, anticipava il mood creativo che è in Metamorfosi. Ora ho riallacciato quel filo. E ripenso al divano di Amy.
Il divano?
Era in casa del mio amico produttore Stephen Duffy. La Winehouse sedeva lì e per settimane giocava a The Sims con le bambine di Stephen. Prodigiosamente rilassata, pur nella sua fragilità. Un mese senza scrivere niente. Finché, sul divano, nacque Back to black.
Che Roma ha ritrovato?
Un
grande fermento indie e non solo. Nell’album c’è un pezzo scritto da Franco 126
e Dardust, S’illumina, che ha una radice molto romana; (ci pensa) rimpiango
i pomeriggi di spensieratezza all’Ostiense, di quando studiavo Critica
cinematografica all’università. E spero che Trastevere si riempia di nuovo
presto di voci nelle strade, che mancano anche a chi tirava l’acqua dalle
finestre. E poi i colori della Garbatella: mio nonno era in fissa con Vecchia
Roma di Villa. ‘Sotto la luna non canti piùùù...”
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