Ormai siete dappertutto
«Cosa vuoi dimostrare con questo gioco ai cerchietti?»
Quando, ai primi di maggio del 2018, iniziai a contare quante firme di donne comparivano sulla prima pagina dei due principali quotidiani italiani, questa domanda me la sentii rivolgere molte volte, sia da uomini che da donne. Per sei mesi, ogni mattina, su «la Repubblica» e il «Corriere della Sera» cerchiai in rosso le firme delle donne e in nero quelle degli uomini, le fotografai e le postai sui social network, taggando i rispettivi direttori di testata con l’hashtag #tuttimaschi. Quel che volevo dimostrare era piuttosto semplice: non è vero che le donne sono dappertutto.
La presunta onnipresenza femminile è una leggenda senza fondamento che ha per varianti mille luoghi comuni: non avete piú barriere, ormai avete conquistato tutte le posizioni, potete fare anche le carabiniere (sic), non avete piú niente da chiedere. Quando qualcuna fa notare che c’è un dislivello numerico (in alcuni casi schiacciante) in posti dove sarebbe logico aspettarsi una compresenza, si sente ripetere sempre la medesima sequenza di frasi fatte, il cui sottotesto è chiaro: adesso basta rompere i coglioni con le quote rosa, le vostre nonne potevano avere ragione, ma ora le battaglie devono cessare, perché la guerra tra i sessi è pretestuosa quando si è raggiunta la parità. Anzi – aggiunge qualcuno tra lo scherzo e la minaccia –, se ci mettiamo a contare niente di strano che in certi ambiti occorra addirittura ristabilire le quote azzurre.
È proprio cosí?
Niente affatto, ma trasformarlo in un’evidenza argomentativa nel dibattito pubblico era e resta complicato, perché la prova di quanto sia fittizia la presunta parità possono fornirla solo i numeri e parlare di cifre e percentuali nei discorsi quotidiani è sempre difficile. Del resto, se sul gender gap bastasse sventolare le statistiche schiaccianti che l’Istat pubblica ogni anno, nessuno si sognerebbe piú di ripetere la falsità che le donne sono dappertutto. Se questo non succede è perché le persone hanno paura dei numeri, molte non sanno proprio leggerli e dunque, non fidandosene, non osano nemmeno usarli come argomento.
Nel 2018 scelsi di mettermi a contare le firme sui giornali proprio per questa ragione: un quotidiano è un oggetto familiare, ha poche cose da enumerare in una prima pagina e in un modo o nell’altro, che sia a casa, al bar o in ufficio, una volta al giorno passa nelle mani di tutti. In quel rudimentale osservatorio non tenevo conto solo del numero delle donne che scrivevano, ma anche della tipologia dell’articolo che firmavano. In questo modo risultava chiaro che le donne non erano solo pochissime, ma soprattutto sottoimpiegate; quando i loro nomi comparivano sulla prima pagina, quasi sempre erano in calce a pezzi di costume o riflessioni su temi ritenuti di «pertinenza femminile» come il femminicidio, la violenza di genere o la disparità di salario. Non firmavano pezzi politici ed economici se non quelli in cui intervistavano esperti maschi, quindi non era mai la loro competenza a essere messa in evidenza. In sei mesi di conta su entrambi i giornali, i soli editoriali di donne erano traduzioni di testi di figure eminentissime della politica o dell’economia internazionale, vincitrici di premi Nobel o prime ministre di altra nazionalità. Italiane mai.
L’azione del contare le firme nei primi giorni scatenò tre risposte: sarcasmo da parte degli uomini, scetticismo da parte delle donne e un sostanziale fastidio nella categoria giornalistica. La maggioranza inizialmente non attribuiva a quella conta alcuno scopo pratico se non il fare polemica, ma giorno dopo giorno cresceva anche il numero delle persone che effettivamente non si erano mai rese conto dell’imponenza del dislivello di genere negli organi di informazione principali, pur avendolo sotto gli occhi tutti i giorni a colazione. Dopo qualche settimana cominciò a verificarsi una specie di magico contagio del pallottoliere: decine di persone comuni, attraverso i social network, cominciarono a condividere la conta delle presenze anche sugli altri quotidiani, nelle trasmissioni televisive e in generale in tutti gli ambiti in cui si metteva in scena la rappresentazione di una competenza senza le donne. In due anni quella conta non si è mai interrotta, anzi è diventata uno tsunami che ha acceso un faro su ogni circostanza nella quale prima si dava per pacifico che le donne ci fossero, e pure in abbondanza.
Contare è essenziale e rivoluzionario, perché rileva immediatamente il tasso di biodiversità sociale e quindi di giustizia. Bisogna chiedere sempre dove sono le donne. Non c’erano esperte? Non c’erano donne competenti? Non c’erano protagoniste di questo scenario? Vale ovunque. Trasmissioni televisive, conferenze e dibattiti, festival di ogni natura, task force, formazioni governative e amministrative, liste elettorali, organi della magistratura e delle forze dell’ordine, consigli di amministrazione aziendale, premiazioni d’ambito, vertici di partito, primariati ospedalieri, rettorati universitari, direzioni di teatri, di giornali, di musei, di organizzazioni sportive, di istituzioni scientifiche e dei relativi progetti.
Contare le donne rende immediatamente palese il dislivello di presenza (e dunque di rappresentazione) di metà della popolazione del Paese e spazza via con la forza dei numeri la diffusa presunzione che la parità di opportunità sia ormai un traguardo raggiunto. Smettere di contare o non cominciare affatto certifica come irrilevante l’assenza delle donne dai luoghi in cui si progetta e si governa ogni ambito del Paese. Non si può cambiare la realtà da un giorno all’altro, ma nessuna realtà comincerà mai a cambiare se la necessità del cambiamento non diventa evidente a tutti. Finché le donne non potranno esserci per contare, è essenziale che continuino a contare per esserci.
Davanti all’evidenza dei numeri è probabile che anche i piú negazionisti del gender gap smettano di dire «le donne sono ovunque». Quello che non smettono di fare è cercare alibi a questa assenza con frasi che ormai abbiamo imparato a riconoscere come miserabili scuse. Mi permetto di esporne una modesta raccolta, nella speranza di non doverle presto sentire mai piú.
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