da: Domani – di Alessandro Penati
Lo scontro tra Vivendi/Bolloré e Mediaset/ Berlusconi sembra un incontro tra due pugili suonati: nessuno dei due può vincere per ko, ma vanno avanti perché ognuno spera in una vittoria risicata ai punti. Sarebbe invece nel loro interesse sospendere le ostilità e trovare un accordo. Il settore televisivo è ormai in declino perché gli utenti si spostano sempre più su piattaforme e contenuti online. In più, Mediaset è penalizzata da una raccolta pubblicitaria che langue perché concentrata in due paesi, Italia e Spagna, che crescono poco. Il Covid ha peggiorato le cose: nonostante la ripresa gli analisti stimano che il fatturato 2021 sarà ancora inferiore del 6 per cento a quello del 2019.
I problemi per Mediaset
Mediaset deve quindi spostarsi sulla produzione di contenuti e puntare a un’aggregazione pan-europea per sfruttare le economie di scala nella distribuzione e tagliare i costi. L’iniziativa Media for Europe, in cui Fininvest voleva unire le attività in Italia e Spagna, è stata bloccata da Vivendi in tribunale e comunque più che un progetto industriale sembrava un modo per blindare il controllo sfruttando la regolamentazione permissiva dell’Olanda.
In assenza di un vero progetto di aggregazione, il 24 per cento nella tedesca ProSieben, che non garantisce a Mediaset il controllo, rimane un investimento finanziario. Questo investimento, insieme agli acquisti di azioni Mediaset per ridurre la sua contendibilità, ha però ridotto il flottante ad appena il 18 per cento e portato il debito a quasi tre volte il margine operativo atteso, rendendo impraticabili operazioni straordinarie. La speranza di recuperare qualche centinaio di milioni dalla causa di risarcimento contro Vivendi è andata in fumo; si farà ricorso ma i tempi sono lunghi e i risultati incerti. Rimane il disimpegno del 40 per cento in Ei Tower (le torri di trasmissione): una fusione con la quotata RaiWay (di Rai) è possibile ma futuribile.
Mediaset vorrebbe espandersi all’estero partecipando all’asta per il 48 per cento della tv francese M6 (vale 1,1 miliardi), ma con quali risorse? Senza contare che Vivendi, ottenuto lo svincolo del diritto di voto sul 29 per cento di Mediaset, potrà sempre mettersi di traverso. Vie di uscita non concordate con Vivendi non sono plausibili I problemi per Vivendi
Nonostante abbia segnato alcuni punti a suo favore in tribunale, anche Vivendi non ha molte alternative. Tra Mediaset e Tim, in Italia ha investito 4,7 miliardi e ne ha già persi due. Senza un accordo, la partecipazione in Mediaset è di fatto congelata e, nel frattempo, si è svalutata più di quanto gli analisti stimavano il risarcimento le sarebbe stato imposto. E pur essendo l’azionista di maggioranza relativa in Tim, non ne esercita il controllo, né lo farà specie con l’arrivo dello stato tra gli azionisti, i progetti per la rete unica e i finanziamenti pubblici per la digitalizzazione: un soggetto estero in controllo di una società “strategica” è utopia. Come lo è un’integrazione verticale di Tim con Mediaset, semmai qualcuno l’avesse immaginata e avesse un senso industriale.
Vivendi può solo sperare che le risorse del Pnrr per la digitalizzazione faccia risalire il titolo Tim, per vendere e uscire limitando le perdite. Anche a casa propria Vivendi ha un problema nel settore televisivo, Canal +, con margini bassi e la concorrenza dello streaming. Al punto che gli azionisti di Vivendi hanno richiesto di scindere Universal Music (la gallina dalle uova d’oro del gruppo) in una nuova società di prossima quotazione. Vivendi dovrà dunque valorizzare Canal+, che diventerà la sua principale attività, tramite un processo di aggregazione, come Mediaset: per questo è anche lei in gara per M6.
Logica vorrebbe che Mediaset e Vivendi fondessero le loro attività in Francia, Germania, Spagna e Italia per creare un vero gruppo pan-europeo con dimensioni e risorse in grado di reggere la competizione di major e piattaforme di streaming americane. La Borsa brinderebbe. Ma il problema è che Berlusconi e Bollorè sono abituati a comandare a casa loro. Dovrebbero invece prendere esempio da Agnelli e Peugeot: fare un passo indietro, lasciare la gestione nelle mani dei migliori manager e poi creare il gigante europeo rimanendone azionisti.
Solo
azionisti, ma ricchi e rilevanti.
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