Ribadire che alle donne serva una motivazione sentimentale per arrivare a risultati razionali ha nella vita di tutti i giorni delle pesanti conseguenze. Soprattutto si traduce nella tendenza a privilegiare gli uomini nei ruoli di comando, perché la capacità di prendere decisioni è pregiudizialmente associata al sangue freddo, al raziocinio, alla competitività e qualche volta, se non proprio alla stronzaggine, di certo alla spietatezza. Le donne, ritenute troppo emotive e inclini all’indulgenza, piú difficilmente vengono stimate adatte ai compiti di leadership. Dietro questa idea non c’è solo un concetto sbagliato del femminile, ma anche della leadership, espressa come carisma muscolare, capacità di controllo dominante e come un’attitudine essenzialmente bellicosa. In questo quadro, le cosiddette soft skills – le competenze morbide, cioè la capacità di fare rete con gli altri, motivare ed esortare, dirimere conflitti ed empatizzare – sono ascritte alla categoria del servizio, non del comando, e guarda caso sono proprio le caratteristiche che in un sistema patriarcale si definiscono piú facilmente come femminili. È la ragione per cui quasi sempre, dietro ogni organizzazione a guida maschile, ci sono team composti prevalentemente da donne e molte di loro, confondendo il servizio con il comando, spesso si compiacciono della possibilità di essere incluse in queste cabine di controllo secondarie che non arriveranno mai a guidare.
Evidenziare che in un ruolo di potere è arrivata una mamma ha un valore particolare in queste dinamiche, perché rassicura tutti del fatto che si tratta di una donna che mantiene la prevalente attitudine alla cura e che la estenderà a tutto il suo agire, anche quello nei luoghi di lavoro. In questo quadro ha perfettamente senso dire che una donna consegue un risultato
scientifico perché è una madre, ma – a parte dirci che è un’ottima madre – in fondo ribadisce anche che abbiamo davanti una pessima scienziata, poco affidabile proprio perché le sue scoperte dipendono da motivazioni personali irrazionali. Quindi non è un caso che a capo del team di quelle quattro ricercatrici ci fosse un uomo: inquadrare una ricercatrice come mamma nell’ambito scientifico è l’equivalente del definire una politica come pasionaria, efficace quando si tratta di agire di pancia, pericolosa quando tocca metterla alla testa di un’organizzazione.Può
capitare che le persone intorno a te pretendano che tu ti comporti con
attitudine materna anche se non hai avuto o voluto dei figli. Cosa implica la
presunzione dell’istinto materno nella vita quotidiana di una donna che ha
responsabilità professionali? Lo scoprii nel 2016, quando trascorsi un lungo
periodo di studio a Heidelberg con l’incarico di confrontarmi con alcuni
scienziati sul tema del rapporto tra ricerca ed etica. Lavorai con il fisico
quantistico alla direzione del Physikalisches Institut, con il biologo a capo
del Center of Organismal Studies e con l’astrofisico che guidava la Haus der Astronomie,
ma nessuno disse le cose che mi rivelò invece la dottoressa Hannah Monyer del
Deutsches Krebsforschungszentrum. In una conversazione specifica1 sulla
gestione della catena di comando, la scienziata, premio Leibniz per i suoi
studi sul cervello, mi disse che rilevava una netta differenza di atteggiamento
in colleghi e sottoposti nei suoi confronti rispetto ai capi e ai colleghi di
altri dipartimenti. Da una donna al comando – mi disse – ci si aspetta
inconsciamente che abbia una maggiore attitudine relazionale e una superiore
capacità di empatia verso le debolezze altrui. Cosí accade che le sottoposte
donne credano di poter contare sulla solidarietà di genere se espongono
problemi familiari per giustificare le loro inadempienze, ma anche che gli uomini
si aspettino di essere considerati nelle loro mancanze con maggiore indulgenza
di quanta non ne godrebbero se le avessero commesse sotto la guida di un uomo.
La scienziata leader che rifiuta di assumere questo ruolo accudente e
indulgente paga il pegno di una fama di durezza che per gli uomini sarebbe
tradotta virtuosamente in «determinazione», e le viene attribuita una
spietatezza che in un collega sarebbe invece ammirata come «rigore
professionale». La dottoressa Monyer era perfettamente consapevole di una cosa:
il fatto che da una donna ci si aspetti una qualche forma di maternage
nell’esercizio del potere di gestione di un gruppo di lavoro comporta una
dispersione di energia personale che va proprio a discapito della ricerca. Da
una donna nessuno si attende che faccia il capo, ma se proprio deve esserlo,
allora che sia un capo-mamma dolce e comprensiva, pena la riduzione a stronza
senza cuore.
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