Non è vero che ci sono poche donne.
Il primo passo è la negazione dell’evidenza. Solo i numeri la smontano, ma resta un’obiezione interessante: il fatto che l’assenza delle donne non sia nemmeno percepita è la parte principale del problema.
Contano le idee e non chi le porta.
Se fosse vero, dalla composizione di tutti i contesti espressivi dovremmo dedurre che le idee, in questo Paese, le abbiano soprattutto i maschi.
È offensivo coinvolgere le donne solo in quanto donne.
Offensivo è pensare che le donne vogliano essere presenti solo in quanto donne. Nessuna chiede spazio in forza del suo utero. Semplicemente pensiamo che quelle di noi che sanno qualcosa di interessante abbiano lo stesso diritto a dirlo che avrebbe un uomo con quella competenza. Se però nove volte su dieci a dire quella cosa viene chiamato un uomo, le ipotesi sono due: o gli uomini sono effettivamente piú bravi a dirla, o chi li invita ne è convinto.
Allora anche le quote gay, le quote stranieri, le quote per tutto.
C’è un errore di fondo in questo ragionamento: le donne non sono una categoria
socioculturale, ma piú della metà del genere umano. Il fatto che si pensi alle donne come a una variante della cosiddetta normalità è significativo, perché rivela che gli uomini sono persone e le donne sono «il genere femminile», l’eccezione che rappresenta solo sé stessa, mentre il maschile è la norma e rappresenta tutti, comprese le persone LGBTQI+, quelle di diversa etnia, le diversamente abili e ovviamente – perché no – anche le donne. Quando c’è un uomo, ci sono tutti.Non ci sono nomi di donne prestigiosi come quelli degli uomini.
L’assunto sarebbe vero se il prestigio fosse un dato di natura, ma nessuno viene deposto in culla già autorevole. L’autorevolezza non deriva solo da quanto è interessante quello che dici, ma dalla possibilità che quello che dici possa influenzare molte persone. Il prestigio delle competenze maschili si è costruito attraverso decine di occasioni di visibilità che nel tempo alle donne non sono state offerte. Continuare a invitare solo uomini a esprimere il proprio pensiero è un modo per consolidare il pregiudizio che gli unici pensieri prestigiosi siano quelli maschili.
Le donne si rifiutano di venire!
È vero. Molti studi comportamentali dimostrano che le donne prendono cosí sul serio il rischio dell’incompetenza che quando non si sentono all’altezza possono rifiutare un’esposizione che invece un uomo – assai piú soggetto all’effetto Dunning-Kruger che induce perfetti incompetenti a sovrastimarsi – accetterebbe con molti meno scrupoli. Se però a declinare è l’uomo invitato, se ne cerca un altro senza troppe storie. Nessuno pensa che a rifiutarsi con lui sia un intero genere.
Le donne che si occupano di questi temi sono poche.
È falso: le donne competenti che scrivono, pensano, studiano e che interverrebbero non sono meno degli uomini. Sono però molte meno nei luoghi dove si sceglie a chi attribuire gli spazi di parola pubblica. I maschi tendono a vedere solo le competenze maschili e le donne che fanno carriera dentro a un sistema maschilista manifestano la medesima cecità selettiva. Se fai notare quest’ultima circostanza, ti rispondono che, essendo stata una donna ad aver organizzato l’assenza di tutte le altre, quella scomparsa è in realtà un gesto femminista. «Se le ha escluse una donna, vuol dire che persino tra di voi vi considerate meno capaci».
Le donne sono meno competenti.
Chi ha il coraggio di affermarlo ha il mio rispetto, perché sta finalmente ammettendo che esiste una discriminazione nel suo modo di giudicare il lavoro intellettuale delle donne. Solo che, anziché attribuire la colpa di questa discriminazione al suo maschilismo, la attribuisce alle donne stesse, il che è un po’ come il noto ragionamento del razzista: «Non sono io che sono razzista, sono loro che sono negri».
Correre appresso alle quote rosa fa perdere un sacco di tempo.
Certo che si perde tempo se prima si fanno gli inviti e dopo ci si chiede «Quante donne ho messo?» Significa che le donne che verranno inserite non risponderanno a un bisogno di rappresentazione del pensiero, ma di rappresentazione delle donne e questo le renderà un fastidioso pedaggio da pagare al politicamente corretto. Progettare un evento in questo modo è faticoso di sicuro, ma la colpa non è nell’esistenza delle donne: è nell’esistenza del maschilismo. Se è complicato costringersi a ricordare che le persone di sesso femminile esistono e fanno pensiero, lo è ben di piú per le donne, costrette a combattere ogni giorno contro i tentativi di essere cancellate dagli spazi dove quel pensiero può essere espresso.
Ma se nell’organizzazione sono tutte donne!
A chi dicesse, di un evento di soli maschi, che sono le donne ad averlo organizzato dietro le quinte, potrebbe essere necessario far notare che è esattamente quella la definizione dell’ancillarità. Che un evento sia stato organizzato o gestito con il lavoro di una donna non può servire in alcun modo a giustificare l’assenza di tutte le altre.
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