sabato 17 aprile 2021

Draghi confina il problema del debito al «mondo di ieri»

 


da: Domani – di Stefano Feltri

Il premier spiega che i mercati ormai guardano soltanto il tasso di crescita, sarà quello a determinare la sostenibilità delle finanze. Ma non è affatto chiaro da dove possa arrivare la svolta che serve all’Italia.

Il grande scrittore austriaco Stefan Zweig ha dedicato un libro memorabile alla nostalgia per il “mondo di ieri”, quello cosmopolita, luminoso e liberale che fu spazzato via dal nazismo.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi, invece, congeda con sollievo il suo “mondo di ieri”, quello nel quale «la sostenibilità del debito di un paese veniva misurata sull’andamento del tasso di interesse». Un mondo nel quale «tutti si chiedevano se uno stato sarebbe stato in grado di sostenere quel debito, oggi questa è una domanda che non si fa più». Nella conferenza stampa di ieri Draghi ha chiarito che nel nuovo mondo, quello del Covid che costringe tutti gli stati a spendere in deficit, «la domanda diventa: ce la farà questo paese a crescere abbastanza per poter ripagare un giorno il debito che sta facendo oggi?». Il mondo di ieri di Zweig non è mai tornato, e lo scrittore nel 1942 si è suicidato in Brasile. Nello scenario di Draghi non c’è posto per la nostalgia,  anche perché il mondo di ieri è molto simile a quello di oggi.

La parentesi

La ragione per cui i mercati si interrogano soltanto sulla crescita e non sull’entità

del debito è che oggi i tassi di interesse sono tenuti bassi dalle banche centrali e quindi il debito può aumentare senza creare l’effetto palla di neve, quando i tassi di interesse troppo alti generano altro debito che poi diventa valanga e travolge tutto.

Ma i mercati vogliono vedere anche le premesse per la crescita nel medio periodo anche perché, prima o poi, i tassi torneranno a crescere. O perché le banche centrali dovranno intervenire per contrastare il rischio di inflazione – a oggi remoto, ma comunque gli stimoli fiscali dei governi faranno salire i prezzi – oppure perché paesi diversi cresceranno a velocità molto diverse nel dopo Covid. E allora paesi ad alto debito e a bassa crescita inizieranno a sembrare zombie tenuti in vita artificialmente dalle banche centrali e dovranno pagare di più il debito.

Le misure anticrisi hanno spinto il debito pubblico italiano al 159,8 per cento del Pil nel 2021. Si tratta dell’effetto di 108 miliardi di misure di sostegno nel 2020 e 31 nel 2021 e del crollo dell’economia reale. Aiuti necessari a evitare il collasso sociale ed economico, ma che non genereranno crescita.

Il loro effetto positivo sul Pil lo abbiamo già visto, nel senso che hanno mitigato la recessione. Ma come si può generare una crescita sufficiente a far risultare sostenibile un debito quasi 25 punti di Pil superiore a quello pre-Covid, che già allora pareva poco sostenibile senza il supporto della Bce? L’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente sui conti pubblici, ha provato a scomporre il risultato del 2020.

Senza il Covid, la crescita attesa per l’Italia era un asfittico +0,5 per cento. Poi è arrivata la pandemia: lockdown, chiusure e zone rosse hanno causato una perdita di Pil di 8,4 punti percentuali, il fatto che il resto del mondo fosse nelle stesse condizioni ha abbattuto il Pil di altri 3,2 punti. A parziale compensazione sono arrivate le misure del governo che lo hanno sostenuto per 2,5 punti percentuali. Aggiungendo al conto altri fattori che hanno determinato un segno negativo per 0,3 punti, il risultato è stata la recessione più grave dal dopoguerra: -8,9 per cento in un anno. Attenzione all’effetto netto sui conti pubblici: per finanziare le misure anticrisi, il governo Conte ha aumentato il deficit di sette punti percentuali, mentre il Pil è cresciuto soltanto di 2,5. Le misure anti Covid, quindi, hanno complicato una situazione già difficile e non sono la base della crescita futura. Sono soltanto una zavorra inevitabile, “debito cattivo”, per stare alla semplificazione usata più volte da Draghi, che non produce nuova crescita ma anzi la soffoca (se in una realtà alternativa, senza pandemia, avessimo speso 110 miliardi in investimenti o in ricerca, il potenziale di crescita dell’Italia forse sarebbe aumentato). Da dove può arrivare quindi la crescita che serve nel “mondo nuovo”?

Quest’anno il Pil dovrebbe crescere del 4,5 per cento, secondo il Documento di economia e finanza appena approvato dal governo Draghi. Un tasso mai sperimentato nella storia recente, ma già parecchio più basso del 6 per cento stimato lo scorso settembre. La pandemia è durata più delle attese, i danni all’economia sono stati maggiori. Il peggio ora sembra alle spalle. Ma molti economisti invitano alla prudenza: finora i governi hanno sempre sottovalutato il pericolo, per poi trovarsi a dover prendere misure di contenimento molto maggiori in piena emergenza. Oggi i vaccini permettono di essere ottimisti sul controllo della situazione domestica, ma restano le incognite delle varianti che si sviluppano nei paesi emergenti con pochi vaccini e della durata dell’immunizzazione.

Sognando le riforme

La crescita potrebbe arrivare dal Recovery plan, sia dai progetti finanziati che, soprattutto, dalle riforme che ci impegniamo a fare con l’Unione europea. Per prudenza, Draghi e il suo ministro dell’Economia Daniele Franco non  hanno indicato l’impatto nel Def. La storia recente insegna che è meglio essere cauti, o anche cinici: un decennio fa un altro premier tecnico, Mario Monti, annunciava che le sue riforme avrebbero fatto guadagnare all’Italia 4 punti di Pil in dieci anni. Non abbiamo mai scoperto se fosse vero, i governi successivi hanno modificato molti dei  suoi interventi in senso regressivo e contrario alla crescita (abolizione dell’Imu, controriforma delle pensioni, sussidi a imprese decotte ecc.). Facendo quello che gli riesce meglio, Draghi ha provato a influenzare le aspettative dei mercati già nella conferenza stampa di ieri: ha assicurato che i numeri del Def sono veri e sostenibili, non incorporano – come successo tante volte in passato – la promessa di future manovre correttive. Per anni i governi italiani approvavano leggi di Bilancio che contenevano aumenti di tasse o tagli di spese da decine di miliardi posticipati su un futuro così remoto che non è mai arrivato. Per ora gli investitori non si mettono contro la Bce e sono più che disposti a dare credito a Draghi. Ma non durerà a lungo. Una ripartenza a razzo degli Stati Uniti – già in corso – avrà l’effetto di far sembrare l’Europa e l’Italia impantanate, strette tra eccesso di debito e incapacità di fare riforme. Nel breve periodo il primo test sarà la graduale rimozione degli stimoli fiscali: per qualunque governo è molto più facile spendere senza limiti che spiegare ai beneficiari di quegli aiuti che è ora di licenziare o fallire.

Il segnale sbagliato

Il primo segnale che il governo Draghi manda all’esterno non è molto incoraggiante. A fianco del Recovery plan, da 191,6 miliardi, ci sarà un altro fondo da circa 30 per finanziare i progetti che non rispettano i criteri europei per tipo o durata (tipo l’alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria). Ma dei 191,6 miliardi europei, 66,8 li useremo per finanziare progetti già approvati che rispettano i criteri del piano Next generation Eu. Quindi: quei 66,8 miliardi faranno soltanto risparmiare un po’ di interessi (il debito europeo costa meno di quello sul mercato) ma non aumenteranno il Pil, sono investimenti che avremmo fatto comunque. In compenso prenderemo a prestito sul mercato 30 miliardi più costosi, per finanziare opere dall’orizzonte temporale e dall’impatto sull’economia così incerto che l’Ue non li vuole finanziare. Difficile pensare che sarà da quelli che arriverà la crescita che ci serve per sostenere il nuovo debito da crisi. Con le regole del “mondo di ieri” la situazione dell’Italia sarebbe insostenibile. Il rischio concreto è che presto molti si convincano che è insostenibile anche nel mondo di oggi.

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