da: Il Fatto Quotidiano – di Gianni Barbacetto
E' arrivato a Palazzo Lombardia quasi per caso, Attilio Fontana. Faceva l’avvocato, incassava ottime parcelle, più che al Carroccio pensava alla sua Porsche Carrera con cui girava per Varese; e al verde delle cravatte leghiste preferiva il green dei campi da golf. Leghista, certo, sempre fedele al leader, prima Umberto Bossi, poi Roberto Maroni, infine Matteo Salvini. Ma di quei leghisti che vogliono saper parlare anche a chi non si mette le corna da vichingo in testa.
Fama di buon amministratore. Comincia a fare il sindaco a Induno Olona, poi è primo cittadino a Varese. Nel tempo diventa una vecchia volpe della politica, con sei anni passati al Pirellone come presidente del Consiglio regionale. Così, quando Maroni —inaspettatamente —decide di non ricandidarsi alla guida della Regione più ricca (e più leghista) d’Italia, tocca a lui. Lo sfida Giorgio Gori, per il Pd, sperando di poter vincere. “Ma Fontana non ha mai perso un’elezione”, sorridevano i leghisti. Infatti diventa presidente della Lombardia.
Si mette di buzzo buono a fare il “governatore”. Avvia la riforma delle società regionali. Studia la messa a punto della sanità lombarda. Di fronte a una macchina così complessa e a spinte ed equilibri così delicati, la sua fama di buon amministratore comincia a scricchiolare. Poi arriva la pandemia, e gli scricchiolii diventano gemiti, urla. La sua immagine-simbolo
resterà quella della diretta Facebook del febbraio 2020 in cui, dopo giorni di sottovalutazione del coronavirus, annuncia il suo autoisolamento a causa di una collaboratrice contagiata dal Covid e s’infila in diretta una mascherina chirurgica sugli occhi, sbilenca e arruffata, senza riuscire a indossarla. È la scena-madre di tutto quello che succederà nell’anno successivo in cui, in fondo, non farà che ripetere cento volte quella scena.Comincia con il balletto scarica-responsabilità con il governo, a proposito del “cluster ” infetto di Alzano Lombardo e Nembro, che sarebbe stato da chiudere subito in zona rossa, anche contro la volontà di Confindustria di Bergamo. Resta aperto, invece, come l’ospedale di Alzano. Parte così il micidiale focolaio che trasforma la provincia di Bergamo nell’area con più morti per Covid al mondo. Fontana va avanti imperterrito, davanti a un pubblico distratto soltanto dalla sua “spalla”, un Giulio Gallera perfino più inadeguato di lui.
Mentre il virus si diffonde e fa in Lombardia metà di tutti i morti in Italia, fallisce la campagna vaccinale contro l’influenza. Regione compra poche dosi (alcune tarocche), in ritardo, a prezzi troppo alti. Peggio ancora, il disastro bis di oggi, con le vaccinazioni anti-covid. Intanto era partita la strage dei nonni, favorita anche da un paio di delibere regionali che permettono di “alleggerire” gli ospedali mandando nelle Residenze per anziani i malati Covid “leggeri”. Poi salta il tracciamento degli infetti. Salta anche l’assistenza domiciliare, con centinaia di nuclei famigliari abbandonati in casa. Per recuperare, viene progettato un ospedale in Fiera per le terapie intensive che resta quasi deserto. Molti dei donatori privati chiedono conto di come sono stati spesi i loro soldi. Intanto, centinaia d’appalti regionali vengono assegnati senza gara.
Per
far dimenticare il disastro, saltano alcune teste (tra cui quella di Gallera) e
arrivano i rinforzi: Letizia Moratti e Guido Bertolaso. La sede della Lombardia
Film Commission è comprata dalla Regione al doppio del suo prezzo, a incassare
è la banda dei commercialisti della Lega. Poi parte la vicenda dei camici
comprati dal cognato, degna di una miniserie tv. Era una donazione, dichiara il
presidente. Poi ordina un bonifico al cognato di 250 mila euro. Emerge così anche
il conto svizzero Ubs in cui sono custoditi i soldi “sbiancati” dalla voluntary
disclosure con cui Fontana nel 2015 ha regolarizzato 5,3 milioni detenuti da
due trust alle Bahamas. Parte l’inchiesta. Fino a oggi.
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