da: https://www.lavoce.info – di Alessandro Lanza
Istituire il ministero della Transizione ecologica è una buona idea. Ma chiarire struttura e competenze del nuovo dicastero non è l’unico problema. Perché il concetto stesso di transizione ecologica non è semplice da definire. Tante le sfide.
Cosa sarà il ministero della Transizione ecologica?
Tra le questioni aperte dopo la formazione del governo Draghi, quella sul ministero della Transizione ecologica appare particolarmente rilevante, non foss’altro perché parte dei fondi del Recovery and Resilience Facility e della sua traduzione nel nostrano Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) verranno gestiti attraverso questo dicastero. Qualcuno l’ha definito uno “scalpo” grillino, cioè il prezzo da pagare per il necessario sostegno a una maggioranza che altrimenti non ci sarebbe stata. In realtà, si tratta di una buona idea, che però avremmo dovuto realizzare dieci anni fa. Ora, uno dei rischi è dato dalle difficoltà di istituire un perimetro coerente nel ritagliare competenze prese da ministeri diversi.
È per fortuna presto tramontata l’ipotesi infausta secondo cui il ministero della Transizione ecologica sarebbe nato dalla fusione di tre ministeri: Sviluppo economico, Ambiente e tutela del territorio e del mare, Infrastrutture e trasporti. Sarebbe stata una scelta infausta perché avrebbe creato un ministero monstre totalmente ingestibile, con oltre 10 mila dipendenti.
Schivato il pericolo, resta da capire con esattezza quali parti dei diversi ministeri verranno accorpate per formare il nuovo.
Due punti chiave
Quello di una transizione ecologica è da tempo un concetto fondamentale per i movimenti ambientalisti di tutto il mondo. In genere, si afferma che la transizione ecologica comporta la trasformazione del sistema produttivo in un modello più sostenibile (definizione impalpabile) che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone.
Volendo essere più coerenti e chiari, nella transizione ecologica bisognerebbe orientare tutte le politiche verso un obiettivo di sostenibilità che deve essere nazionale, ma in un contesto globale. Devono cioè essere rapidamente ridotte le emissioni di gas climalteranti, a partire dall’anidride carbonica. Ma la riduzione deve a) essere letta in un contesto globale; b) essere meglio qualificata per capire dove possiamo agire.
Il grafico 1 riporta l’identità di Kaya.
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In sintesi estrema, esprime questo concetto: l’incremento delle emissioni dipende dall’incremento del reddito pro-capite e della popolazione, mentre all’abbassamento delle emissioni contribuiscono l’aumento dell’efficienza energetica e la riduzione del contenuto di carbonio per unità di energia.
Il problema sta tutto qui: il reddito pro-capite è cresciuto moltissimo a livello planetario (+250 per cento in 60 anni) così come è cresciuta la popolazione mondiale (+150 per cento), ma non si può dire altrettanto per quelle variabili che avrebbero dovuto giocare un ruolo nella riduzione delle emissioni globali, ovvero l’aumento dell’efficienza energetica e la decarbonizzazione dell’offerta di energia.
Il ministero della Transizione ecologica dovrà lavorare esattamente su questi due punti a livello nazionale e internazionale. E forse non è un caso che sia stato chiamato a guidarlo uno scienziato esperto di nuove tecnologie. Gli incrementi di efficienza energetica si ottengono solo attraverso lo sviluppo prototipale e con l’adozione di nuove tecnologie a tutti i livelli: di singolo impianto industriale e negli usi finali. La decarbonizzazione è figlia del cambiamento di mix dell’offerta/domanda di energia. Più gas naturale e meno carbone nell’ambito dei fossili; più rinnovabili e meno fossili in generale.
Esistono naturalmente correnti minoritarie di pensiero che sostengono che il risultato della riduzione della CO2 in ottica Kaya andrebbe realizzato soprattutto mediante una ridotta crescita economica (la decrescita felice) e un maggior controllo delle dinamiche di crescita della popolazione (nei paesi in via di sviluppo, perché alle nostre latitudini il problema è casomai opposto).
La transizione energetica
La transizione ecologica implica anche una transizione energetica, la cui definizione è meno sfuggente della prima. La storia dell’uomo è costruita sulle transizioni energetiche.
Oltre 1 milione di anni fa, abbiamo cominciato a controllare il fuoco. Fu una scoperta esclusivamente umana, preclusa ad altri esseri viventi, un momento centrale che rivoluzionò l’esistenza dell’uomo sulla terra. Senza la padronanza del fuoco l’evoluzione umana non sarebbe stata quella che conosciamo. Il fuoco ha fornito l’innesco decisivo, l’ha accelerata, plasmata. Con il fuoco l’uomo ha iniziato a mangiare cibi più sani perché cotti, a scaldarsi contro il freddo. La produttività è aumentata vertiginosamente.
In tempi molto più recenti, la prima rivoluzione industriale inglese è stata essenzialmente una transizione energetica. I canali che trasportavano merci e persone nel Regno Unito di allora sono stati rapidamente sostituiti da ferrovie e locomotive a carbone, a riprova del fatto che, per una transizione, ci vogliono diverse componenti: una fonte di energia “nuova”, una tecnologia altrettanto nuova e, come risultato, un enorme incremento di produttività con il relativo benessere generalizzato.
In questo momento storico è difficile capire come potrà avvenire la nostra transizione. Non abbiamo una fonte “nuova” e non si vede una tecnologia che potrà affermarsi grazie alla nuova fonte, come invece è stato nei casi di carbone-vapore-locomotiva e, più tardi, di petrolio-mobilità-motore a scoppio.
Vaclav Smil, scienziato e analista politico, ricorda che le transizioni energetiche sono avvenute sempre in tempi molto lunghi. A sostegno porta un esempio semplice ed eloquente. Il primo trattore è stato introdotto alla fine dell’Ottocento, ma tra gli agricoltori americani non si è diffuso in maniera significativa fino agli anni Sessanta del Novecento, per via di una certa inerzia nell’uso dei cavalli. E dunque non bisogna stupirsi se, dopo un infinito dibattito, la quota di fonti fossili sul totale dell’offerta mondiale di energia è passata dal 93,7 per cento del 1965 all’84,3 per cento nel 2020, solo meno di 10 punti percentuali in oltre mezzo secolo.
Il
nuovo ministero ha davanti a sé un compito certamente difficile, il suo
ministro saprà cogliere la sfida? Lo speriamo, per lui e per tutti noi.
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