È diversa dalle altre primavere, quella di Pizzofalcone. Perché il quartiere è uguale a tutti gli altri e differente al tempo stesso. È una collina, ha la sua sommità e i suoi pendii che le vie strette e gli alti palazzi antichi hanno cercato di nascondere, e che sono tuttavia visibili e sensati, in direzione del mare o dell’angusta strada dei negozi che aprono e chiudono nel volgere di due stagioni, o della grande piazza monumentale e semideserta; è una collina, perciò il vento colpisce o accarezza, sibila o sussurra, rinfresca o riscalda a seconda del punto dove vi collocherete ad ascoltare la primavera, in alto, a mezza strada o a valle. Ed è abilissimo a disorientarvi, Pizzofalcone, perché proporrà una curva, poi un’altra e un’altra ancora, in maniera da costringervi a dimenticare la direzione che stavate percorrendo, e rassegnati passeggerete incerti e comunque ammirati dai muri scrostati e dai portoni immensi, che talvolta si aprono su meravigliosi giardini incolti.
Rinunciate a una meta, se siete a Pizzofalcone in primavera. Diventate sensoriali, andate a vela. Affidatevi alla pelle, alle orecchie, al naso. Scoprirete il glicine in fioritura, sul muro borbonico all’inizio del viale, di fronte all’oratorio vecchio. Compare mescolandosi all’edera che non se n’è mai andata, a presidio della posizione anche durante il freddo e la stagione delle finestre sbarrate e del silenzio, in guerra contro le raffiche di tramontana; e adesso i grappoli viola sembrano un premio alla costanza, per aver coperto le scanalature nel piperno che un tempo facevano da rastrelliere ai moschetti.
L’odore del glicine, se vi affidate, vi porta a quello della ginestra selvatica del monte Echia, l’origine di tutto, il punto da cui i fondatori si guardarono attorno, duemilacinquecento anni fa e più; sarà la primavera, se l’ascoltate, a spiegarvi il perché di quel brulicante purgatorio che vi circonda a perdita d’occhio. Perché sarà lì che vi assalirà l’azzurro, come un’ondata fisica e sonora, così bello e traboccante da costringere pure voi a guardarvi attorno con un mezzo sorriso, chissà chi è che mi ha fatto questo scherzo, penserete, impossibile che una cosa così bella sia vera, e che non ci siano schiere di turisti assorti in silenzio a osservare a bocca aperta, di certo qualcuno ha allestito una scena, sarà un effetto speciale.
E la primavera insofferente vi porterà via, tirandovi per la manica come una ragazza superficiale e capricciosa, perché non è solo il mare e il cielo che ha da proporre in uno dei suoi primi giorni di bellezza, non è solo quel colore intenso e disperato che ha sostituito le sfumature grigie dell’inverno. La primavera ha l’ansia di farvi immergere di nuovo nelle stradine e nei vicoli che scendono verso la città, accompagnati dal canto degli uccelli che non credevate di ascoltare a così poca distanza dalla cacofonia dissonante delle lamiere urlanti, e dai gabbiani che vanno e vengono dall’acqua torbida poco distante.
Man mano che camminate dovrete tenere memoria dell’inverno, perché il bello della primavera è che propone differenze. Rammenterete allora il silenzio, nell’odore della legna bruciata e nell’opaco delle finestre chiuse. Adesso invece sentirete la musica, vecchie canzoni rock di anziani ragazzi ormai in pensione che aprono i battenti a un’aria diversa. Genesis e Beatles, Deep Purple e Rolling Stones, Aretha Franklin e Pink Floyd vi sorprenderanno se vi aspetterete neomelodici e canzoni in dialetto, perché la musica è un album di fotografie della passata gioventù e ognuno ha avuto la primavera che ha avuto, e nella luce nuova è bello ricordarsene insieme al sapore di baci rubati, quando c’erano ancora i capelli e le anche sembravano indistruttibili.
Non fermatevi alla musica, non sostate davanti ai ricordi altrui: piuttosto assistete alla lotta fra l’umido e il sole di via Egiziaca, metà per uno, un brivido e una strizzata degli occhi abbagliati, lo stridente contrasto fra la coda percepibile dei mesi freddi e la promessa della spiaggia e del gelato alla crema.
Non fermatevi e camminate, presi da una piccola inquietudine che comincia a serpeggiarvi dentro, perché non è vero, alla fine, che procedete senza meta, non è vero che questa è una passeggiata all’interno della primavera e basta. A Pizzofalcone, anche se non è chiaro, i piedi sanno sempre dove andare.
Arrivate all’angolo di Santa Maria degli Angeli. Vedrete la facciata striata di luce, quella lasciata libera di correre dall’eterno cantiere della metropolitana che scende nelle viscere della Terra. A quest’ora di mattina non ci sono vecchi che guardano nell’abisso oltre le transenne, ma ce ne saranno più tardi o forse no, se ci sarà qualcos’altro da osservare al di là di una striscia di plastica tesa nell’aria. Che è forse il motivo per questo brivido che vi attraversa la schiena e forse no, forse è l’ennesima reminiscenza dell’inverno che lotta per non morire soffiando da un portone semiaperto, ingannevole e incomprensibile come il canto di una donna che viene dall’Est.
Incamminatevi per Monte di Dio, che è larga e bella e dritta come la strada di un’altra città, non fosse per i marciapiedi stretti e invasi, non fosse per l’odore di cipolla che viene dalle cucine, non fosse per le bottiglie di birra vuote che vengono dalla notte e stanno allineate come armi abbandonate all’esterno di una saracinesca abbassata. Salite per qualche metro, poi fermatevi come se aveste udito un lamento, un richiamo, anche se non c’è nessun suono, a parte quello dei gabbiani che vanno verso il mare.
Alla vostra destra, in uno dei vicoli, la primavera c’era pure d’inverno sotto forma di un chiosco di quelli antichi, ferro battuto e vetro, piastrelle e scaffali in legno. C’era perché nel chiosco si commerciano fiori, e c’è forse un simbolo della primavera più attinente e congruo dei fiori? C’è forse qualcosa di più primaverile di quell’esplosione di colori e di quell’odore di vegetazione bagnata, di decomposizione allegra di bulbi e corolle, di gambi e di foglie? La primavera riposa tutto l’anno in mezzo ai fiori, come una divinità conservata in un tabernacolo, pronta all’uso in caso di necessità: quindi in qualche modo è qui che viene celebrata ancora di più, è qui che risiede a miglior titolo. No?
E allora cos’è questo disagio, questa punta di paura che avvertite in petto avvicinandovi al chiosco dei fiori, nella prima mattina di uno dei primi giorni di una stagione che è prima nella fioritura, prima nel profumo, prima nella voglia di rinascere? Perché sentite qualcosa di sbagliato, di malinconico nel cuore e negli occhi, man mano che guardate meglio e il chiosco emerge dall’ombra?
Perché non c’è niente di più stonato, di più deviato, di più distorto, rispetto alla primavera, del sangue e della morte.
Ecco
perché.
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