da: Domani – di Fabio Ciconte
Una passata di pomodoro a 49 centesimi, l’anguria venduta a 1 centesimo al chilo, l’offerta imperdibile nel volantino promozionale del supermercato. Per capire il fenomeno del caporalato, lo sfruttamento di migliaia di uomini e donne costretti a lavorare con paghe da fame e in condizioni inumane, con paghe da fame e in condizioni inumane, dobbiamo osservare il cibo che viene venduto sugli scaffali dei supermercati o quello che percorre migliaia di chilometri tra una nazione e l’altra per arrivare nelle nostre case, spesso a un prezzo stracciato. Non tutti i prodotti venduti sottocosto vengono dallo sfruttamento, ma tutte le situazioni di sfruttamento sono collegate a una politica del cibo che ha fatto degli sconti e del sottocosto, la sua bandiera. È un problema solo italiano? Oggi possiamo dire di no e il rapporto E(U)xploitation di Terra! lo dimostra. L’indagine sul campo che abbraccia i tre paesi, Italia, Spagna e Grecia, restituisce una fotografia dai contorni omogenei dove prevalgono le stesse distorsioni che in questi anni abbiamo raccontato e denunciato in Italia. E gli stessi drammi. Come la tragica morte di Eleazar Blandón, avvenuta lo scorso agosto a Lorca, nella regione spagnola di Murcia, mentre raccoglieva cocomeri con una temperatura di 44 gradi. In quegli stessi giorni, in Italia, uno dei più importanti discount italiani lanciava un’offerta promozionale proponendo l’anguria in vendita a un centesimo al chilo.
Un’operazione commerciale che il gigante della Grande distribuzione organizzata (Gdo) giustificava sostenendo di aver coperto i costi della filiera. Non c’è un nesso tra la morte di Blandón e la promozione sulle angurie italiane. Tuttavia, questi due fattori rappresentano le due facce di uno stesso sistema agroalimentare in cui convivono le più grandi contraddizioni: imprese multinazionali, sussidi pubblici, grandi chef stellati, inquinamento e, infine, sfruttamento del lavoro.
La forte atomizzazione dei produttori, spesso incapaci di porsi come interlocutori privilegiati sul mercato, favorisce ovunque il rafforzamento dei gruppi distributivi e l’avanzata dei monopoli nel settore agricolo. Ed è ormai evidente che a una filiera frammentata corrisponde un maggiore sfruttamento. A imbrigliare i lavoratori in una subdola logica del ricatto è la giungla dei contratti. La forte flessibilizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro in Europa ha portato a una deregolamentazione spietata. I fragili organismi di controllo, in molti casi sprovvisti di strumenti adeguati, non riescono a monitorare davvero le disfunzioni del settore e, in molti casi, risolvono casi complessi con l’imposizione di una pena pecuniaria. Siamo dunque di fronte a una questione meridionale inedita, europea, non più esclusivamente italiana. Anzi, nel nostro paese almeno dei passi avanti sono stati fatti.
La legge “anti-caporalato” del 2016 ha rivoluzionato la concezione del reato, non imputabile solo ai caporali, ma anche ai datori di lavoro. Approccio in Europa, dove il caporalato viene ridimensionato spesso a semplice cronaca, ancora non esiste.
L’Ue
e i singoli stati membri dovrebbero dotarsi di norme comuni
contro il caporalato e che estendano la responsabilità dello sfruttamento alle
imprese. Solo allora lo sfruttamento e intermediazione illecita diventeranno un
problema di tutti. Intanto l’Ue si appresta ad approvare in via definitiva
un piano di politica agricola da 50 miliardi annui, circa un
terzo del bilancio europeo, privilegiando come in passato un modello
agroindustriale, che ha già dimostrato tutta la sua nocività determinando
la chiusura di milioni di aziende agricole e una riduzione della
biodiversità. Unica nota positiva, il possibile inserimento di una “clausola
sociale”, che prevede l’azzeramento dei fondi agli agricoltori che non
rispettano i contratti di lavoro.
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