da: Il Fatto Quotidiano - di Alessandro Bonetti
Leggendo tra le righe. Gli ultimi
(generici) interventi e le possibili applicazioni: chi salvare ora che “i
sussidi finiranno”, la questione Mes e la partita sui vincoli Ue
La
Draghi-mania ha coinvolto un po’ tutti, da Confindustria ai sindacati, dal
centro-sinistra alla destra. L’esaltazione bipartisan per l’ex presidente della
Bce nasce dalla sua fama di salvatore dell’euro e baluardo contro il rigore
nordico in Europa. Come negare che il “whatever it takes” abbia avuto un ruolo
decisivo per l’eurozona? Ma Draghi potrà fare “tutto il necessario” per salvare
l’Italia? E, soprattutto, quale Italia? Quella delle imprese dell’export
cresciute negli anni pre-Covid o quella dei milioni di disoccupati? Per
rispondere a questa domanda bisogna partire dall’articolo scritto proprio da Draghi
sul Financial Times il 25 marzo 2020
che segna la nuova fase del discorso pubblico dell’economista.
A marzo Draghi sottolineò come in una crisi non ci sia da preoccuparsi del debito dello Stato, perché la priorità è salvare l’economia: “La perdita di reddito in cui incorre il settore privato – e ogni debito assunto per rimarginarla – deve alla fine essere assorbito, in tutto o in parte, dal bilancio del governo”. Parole non equivocabili. Non siamo più nell’epoca dei tagli, anche se alcuni sembrano non essersene accorti: molti sono i tifosi di Draghi che forse non sanno che il loro idolo, in un discorso del 23 settembre 2019, aprì persino alla Mmt.
Una
volta seppelliti i dogmi (“un cambiamento della mentalità è tanto necessario in
questa crisi quanto lo sarebbe in tempi di guerra”), bisogna capire come spendere. Draghi sul FT scrisse che bisognava evitare “una permanente distruzione della capacità produttiva”. Non si può
non essere d’accordo. E proprio per questo sorge qualche dubbio. Draghi non dice cose straordinarie. Afferma
semplicemente la nuova vulgata.
Ma da questa vulgata i temi chiave sono
lasciati fuori. Si vuole un ritorno della politica industriale? Si propongono massicci investimenti pubblici? O una semplice socializzazione delle perdite?
La risposta non emerge neanche se si
studiano le altre recenti uscite del nostro. Il premier in pectore avallerà il
ritorno al Patto di Stabilità o
lancerà una lotta senza quartiere per tenersi le mani libere? La caratura internazionale per cambiare le
regole europee c’è tutta. Ma la volontà
politica? Certo, nel suo ultimo
discorso all’Europarlamento come presidente della Bce, Draghi aveva detto che le regole europee andavano “riviste”. L’uomo che mandò alla
massima potenza la stampante di Francoforte non potrà accettare un ritorno puro
e semplice ai vecchi vincoli.
Anche
per questo è improbabile che chieda l’accesso al Mes. Sarebbe una beffa chiedere l’attivazione di uno strumento di
cui è stato implicitamente un avversario. Il whatever it takes prima e il Quantitative
easing poi hanno reso un relitto lo strumento che doveva garantire in
teoria la stabilità finanziaria dell’Eurozona: dall’intervento straordinario della Bce nessuno è più stato
costretto a ricorrere all’ex fondo salva
Stati (gli ultimi Spagna e Cipro nel 2012). Ma c’è anche una questione
politica: a meno di non essere in serie difficoltà, Draghi non si abbasserebbe
mai a domandare il sostegno di un organismo tanto criticato e problematico, che
Monti si rifiutò di utilizzare quand’era in carica e con mercati assai più
agitati di quelli attuali.
La
questione che resta, però, è sempre quella degli obiettivi. Di fronte a un crollo
verticale di consumi, occupazione e
produzione, a quali settori darà la priorità il nuovo premier? A stare ai
suoi interventi passati non tutti possono stare tranquilli. “Ogni decisione economica ha conseguenze di
carattere morale”. Questo scriveva il 9 luglio 2009 sull’Osservatore Romano
l’allora governatore di Bankitalia. Questa tendenza a enfatizzare le questioni
etiche si è notata anche al meeting di Rimini di agosto 2020. Ma, leggendo fra
le righe di quel discorso, si intravede il vero messaggio, che è economico. Draghi
è sicuramente in linea con la sensibilità della Commissione sul Recovery Fund: ambiente e digitalizzazione, insieme
all’istruzione, furono temi centrali in quel discorso. Quanto a sussidi e ristori, a Rimini Draghi non li attaccò
frontalmente – come sarebbe piaciuto a Confindustria,
che ora gli chiede di abolire Reddito di
cittadinanza e Quota 100 sulle pensioni – ma lanciò un avvertimento: “I sussidi finiranno”. E poi fece anche
una distinzione fra “debito buono” (a
fini “produttivi”, come investimenti nel capitale umano, infrastrutture
cruciali per la produzione, ricerca) e “debito
cattivo” (a fini “improduttivi”, non specificati). Una distinzione in cui è
chiara la traccia di quel moralismo
mainstream che ancora oggi confonde debito e colpa.
C’è
un altro dettaglio da non sottovalutare. Draghi disse che per alcuni settori “un ritorno agli stessi
livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia è improbabile”.
Le conseguenze di questa considerazione sono state chiaramente esposte in un report
di dicembre del “Gruppo dei 30”, nel cui comitato di direzione siede proprio
Draghi. Un documento che incoraggia i governi a passare da un sostegno ampio all’economia a uno più mirato, “permettendo la riallocazione delle risorse”.
Vanno sostenute solo le imprese che
potranno essere in salute nell’economia post-Covid: bisogna “permettere alle
forze di mercato di guidare, almeno parzialmente, il sostegno economico
futuro”.
Ecco
che riemerge la razionalità del vecchio
mondo: il mercato è in grado di garantire la piena occupazione delle
risorse nel lungo periodo. Con qualche imperfezione, certo, ma correggibile
dalla mano pubblica. Che però, si legge nella presentazione, deve “ridurre la
portata e il volume del sostegno che ha caratterizzato la politica economica
nelle prime fasi della pandemia”. Che significa? In un convegno in Italia
proprio per presentare il report del G30 si accennò a quel 20% di aziende che
sono ormai ai margini del mercato, destinate a uscirne. Ammesso che sia giusta,
la scelta tra “sommersi e salvati” della crisi è però eminentemente politica:
per capire chi avrà cosa, forse lui stesso aspetta di capire chi lo sosterrà.
Finora si è tenuto sul vago.
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