da: Domani - di Francesco Ramella (ingegnere)
Nel cahiers
de doléances renziano tra i temi che hanno portato al fallimento
delle trattative per la formazione di un esecutivo Conte III si menziona l’alta velocità. Sembra essersi
ripetuto il copione già visto nell’estate del 2019 quando sulla Tav si
consumò la rottura tra Lega e M5s.
È peraltro curioso che lo scontro abbia
come oggetto un’unica infrastruttura. Per tutte le altre linee c’è infatti un
consenso trasversale e gli stessi grillini
sono tra i più ferventi sostenitori
degli investimenti in Italia meridionale.
Per prendere a prestito le famose parole del presidente del Consiglio
incaricato, si potrebbe dire in tema di investimenti
infrastrutturali l’approccio di tutti i partiti è quello del «whatever it
takes».
Gli
obiettivi
Per tornare a Italia viva, qualche giorno fa l’ex ministra Teresa Bellanova si chiedeva retoricamente: «Possiamo continuare con questa cosa che per andare da Roma a Milano ci vogliono tre ore e mezza e per andare da Roma a Lecce ce ne vogliono sei anche se la distanza è la stessa?». Sulla stessa lunghezza d’onda Paola De Micheli secondo la quale nessun cittadino italiano dovrebbe trovarsi a più di cento chilometri di distanza da una linea ad alta velocità.
E perché non a cinquanta oppure duecento?
Nelle “valutazioni” di quasi tutti i
politici si guarda solo ad un lato della
medaglia, quello dei benefici per il singolo utente e si ignorano i costi.
Il fatto che tra Milano e Roma si
sposti un numero di persone che è
intorno a venti volte superiore a quello che si registrerebbe tra la capitale e Lecce nel caso i
tempi di spostamento fossero identici sembra essere un dettaglio del tutto
trascurabile.
Sarà dello stesso avviso anche Mario
Draghi? Intervenendo la scorsa estate al Meeting di Rimini l’ex presidente
della Bce parlò di debito buono e di
debito cattivo. Molti giornali
all’epoca scrissero che il debito buono è quello per infrastrutture e
ricerca.
L’affermazione era in realtà più
circostanziata; il riferimento era infatti alle «infrastrutture cruciali per la produzione». Sembra abbastanza
evidente che non tutte le nuove strade o
ferrovie rientrino in questa definizione. Più recentemente, in
un’intervista al Corriere della Sera, Draghi
è tornato sull’argomento sostenendo che: «Quel
che bisogna valutare è se un progetto è utile o no. Se supera certi test
che riguardano il suo tasso di
rendimento sociale, come anche nell’istruzione o nel cambiamento climatico,
oppure è semplicemente il frutto di una
convenienza politica e di clientelismo». Il tasso di rendimento sociale è precisamente quanto si cerca di stimare attraverso le analisi
costi-benefici. Ed è quello che nessun
decisore politico sembra volere conoscere probabilmente perché potrebbe fare a pugni con le ragioni del
consenso locale e di breve periodo.
Per tornare ai desiderata di Renzi: tra la Torino-Lione e la Gronda di Genova c’è un
abisso. Il primo progetto è
disastroso, i benefici rappresentano
meno del dieci percento dei costi
da sostenere. E non è certamente “cruciale per la produzione” delle imprese
italiane che esportano in Francia o in Spagna il disporre di un trasporto
ferroviario più efficiente di quello attuale ma che rimarrebbe comunque
inferiore a quello su gomma e che sarebbe preferito a quest’ultimo solo in
ragione degli esorbitanti pedaggi previsti per l’utilizzo della rete
autostradale e dei trafori alpini. Gli unici
reali benefici sarebbero goduti da poche
migliaia di passeggeri che risparmierebbero un’ora di tempo per recarsi in
Francia.
La Gronda
di Genova, al contrario, pur essendo un progetto sovradimensionato rispetto
alle reali necessità, è socialmente
auspicabile grazie alla riduzione della congestione stradale; i benefici superano i costi. Non è
possibile, dunque, definire aprioristicamente “buono” il debito per
investimenti ma bisogna valutare caso per caso. E il fatto che oggi il denaro
costi pochissimo non è ragione sufficiente per sprecarlo.
Rimane, infine, da segnalare un paradosso.
Vi è da parte di molti il timore che cattivi progetti possano non ricevere
l’approvazione della Unione europea. Ma non si può dire che fino ad oggi i
parametri di giudizio per l’utilizzo dei fondi europei siano stati così severi.
Esempio preclaro è proprio quello della Torino-Lione. La Commissione europea
non ha mai sollevato obiezioni di fronte ad analisi che, per fare tornare in
qualche modo i conti, si appoggiavano su previsioni di domanda del tutto
inverosimili e sconfessate dagli stessi promotori del progetto. Si può anzi
supporre che la disponibilità di un contributo europeo sia stata una delle
ragioni che ha reso ancor più una disamina oggettiva del progetto: «tanto paga
l’Europa».
C’è da augurarsi che l’esperienza non abbia a ripetersi. Ma quis custodiet custodes.
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