da: la Repubblica
Vi
è un confortante dato di realtà che non dovrebbe essere trascurato da chi
ancora ritiene che una riforma costituzionale sia cosa seria e impegnativa,
dunque l’opposto di un uso congiunturale delle istituzioni. Lo spirito critico
con il quale sono state valutate le proposte del Governo, che qualcuno aveva
respinto come una indebita intromissione accademica nell’orto chiuso della
politica, ha prodotto un frutto inatteso: una discussione diffusa, non
riducibile a opinioni di parte, grazie alla quale si sono accumulati materiali
che mostrano vie percorribili da ogni innovatore fedele ai principi della
democrazia. Il tempo delle riforme costituzionali ha una sua caratteristica
propria.
Non
la deprecata lentezza, ma il bisogno della riflessione e della ponderazione.
Perché, altrimenti, sarebbe prevista una procedura di doppia deliberazione
delle Camere con un intervallo temporale di almeno tre mesi tra l’una e
l’altra, con un prolungamento verso un referendum popolare confermativo qualora
l’approvazione definitiva non raccolga la maggioranza dei due terzi? Dialogo
parlamentare vero, allora, e occhio a ciò che proviene dall’opinione pubblica.
Molte
riforme possono essere considerate all’insegna dello shortcut, termine del
mondo dei computer, approdato nella discussione sociale e politica per indicare
la ricerca di “scorciatoie”. Ma queste non si addicono a un cambiamento
costituzionale destinato a incidere sulla forma di Stato e di governo, come mostra
la cattiva esperienza delle riforme approvate all’insegna della fretta, come
quella del titolo V della Costituzione che giustamente ora si vuole modificare.
Il
primo problema riguarda l’impossibilità di considerare la proposta del Governo
fuori della sua globalità - Non si possono disconnettere i diversi momenti di
riforma del sistema parlamentare, modificando la legge elettorale della Camera
e lasciando nel limbo quella del Senato e considerando quest’ultimo fuori degli
equilibri costituzionali. Poiché al centro della proposta governativa è la
Camera, da qui bisogna partire.
Il
modello Italicum avrebbe potuto essere sostituito da altri, ma questa scelta è
stata preclusa dai contraenti dell’oscuro patto del Nazareno. Ma quel testo
deve essere rispettoso dei principi posti dalla Corte costituzionale con la
sentenza che ha cancellato il Porcellum, in primo luogo il principio di
rappresentanza. La inammissibile logica ipermaggioritaria adottata lo
contraddice. Si ha qualche segno di ripensamento rispetto alle soglie previste,
alzando al 40% quella che esclude il ballottaggio tra le due prime coalizioni e
facendo scendere quella prevista per i partiti in coalizione. Mossa,
quest’ultima, congiunturale, perché sembra una assicurazione di sopravvivenza
offerta a Ncd e Sel perché entrino, rispettivamente, nella coalizione di
centrodestra e di centrosinistra. Ma, riconosciuta questa distorsione, rimane
intoccata quella che pone all’8% la soglia per l’ingresso alla Camera dei
partiti che si presentano da soli. Una mossa di chiusura al nuovo, che
scoraggia le dinamiche politiche, e così non contempla il futuro e confina
nella società innovazione e conflitto, con rischi di incostituzionalità e
delegittimazione della rappresentanza politica. Altrettanto conservatrice è la
scelta di arroccarsi sul passato per il diritto degli elettori di scegliere i
loro rappresentanti. Il risultato è la separazione tra istituzioni e cittadini.
Questo
allontanarsi dal principio di base indicato dalla Corte fa rischiare l’uscita
dalla democrazia rappresentativa e l’approdo a una democrazia dell’investitura
e della ratifica. Se il voto serve solo a scegliere il Governo, e questo
diviene poi padrone della Camera alla quale può essere imposto di ratificare
ogni suo provvedimento, il bilanciamento dei poteri è infranto, gli equilibri
costituzionali saltano. Qui bisogna intervenire, e da qui nasce l’obbligo di
guardare al Senato come istituzione che contribuisca a restaurare un equilibrio
altrimenti perduto.
Escluso
che il Senato voti la fiducia al Governo e la legge di bilancio, non si possono
evocare esigenze di governabilità e si deve entrare nella diversa logica dei
controlli e delle garanzie, una volta abbandonato il bicameralismo perfetto. È
necessario un suo ruolo paritario per le leggi costituzionali e l’elezione del
Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, del Consiglio
superiore della magistratura. Vi sono ragioni perché al Senato sia attribuito
il potere d’inchiesta, di dare parere vincolante su determinate nomine, di
valutare autorizzazioni a procedere e all’arresto, di risolvere questioni su conflitti
d’interesse e eleggibilità dei parlamentari. Tutte materie da sottrarre alla
logica maggioritaria, come deve accadere per i diritti fondamentali. Tema da
affrontare sia prevedendo in generale (quindi anche per la Camera) maggioranze
qualificate quando si voglia intervenire su di essi; sia prevedendo per il
Senato di intervenire in modo paritario nel procedimento legislativo. Il Senato
come garanzia del futuro.
In
questo modo il Senato uscirebbe dall’irrilevanza alla quale lo condanna il
testo del Governo e, per la partecipazione alla legislazione, si abbandonerebbe
il gioco dell’oca al quale viene condannato, con un eterno ritorno alla casella
di partenza, visto che il potere sarebbe saldissimo nelle mani della
maggioranza della Camera. Le funzioni del Senato sono compatibili con
l’elezione diretta dei suoi componenti e pure con il metodo proporzionale, non
solo per differenziarlo dalla Camera, ma perché le funzioni di garanzia non
coincidono con la logica puramente maggioritaria. Senza una preventiva
individuazione delle competenze è futile la discussione sulle modalità di
elezione, che approda a proposte come quella francese, già vecchia nel paese
d’origine. E per i costi, tanto enfatizzati, i risparmi possono venire da una
bilanciata riduzione del numero dei parlamentari e della loro indennità.
Questi
suggerimenti danno indicazioni per approdare a un modello innovativo. Vi sono
le condizioni politiche e culturali per farlo? Non lo so, ma credo fermamente
che bisogna lavorare come se fosse possibile crearle. E l’innovazione sarebbe
monca, e il segno conservatore rimarrebbe, se la democrazia rappresentativa non
venisse integrata con quella partecipativa, come indica il Trattato di Lisbona.
Nuova disciplina delle iniziative legislative popolari, forme di intervento dei
cittadini, a esempio con referendum propositivi, uso dei media civici
costituiscono la gamba di cui una democrazia azzoppata ha bisogno per non
declinare in democrazia plebiscitaria.
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