martedì 9 marzo 2021

Giorgio Meletti: Altro che colpo di stato, alla fine comandano sempre i soliti noti.

 


da: Domani

C’è un interrogativo sulla natura del governo Draghi. C’è chi teme che un’operazione politica senza precedenti – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a reti unificate, ha imposto al parlamento il nuovo esecutivo – abbia generato un gverno di “tecnocrati, militari e poliziotti”, con Franco Gabrielli promosso da capo della polizia a sottosegretario ai servizi segreti.

La nomina di un generale degli alpini, Francesco Paolo Figliuolo, come commissario per la pandemia ha suscitato timori che è meglio analizzare con un occhio a quella che Niccolò Machiavelli chiamava “verità effettuale delle cose”.

Se di golpe si trattasse, lo starebbero facendo i sempre bistrattati impiegati statali. Nel governo Draghi ci sono otto cosiddetti tecnici, sette ministri più il presidente del Consiglio. Uno solo di loro, Vittorio Colao, viene da quella che Silvio Berlusconi definì amabilmente “la trincea del lavoro”: ha sempre fatto il manager. Draghi, tra la direzione generale del Tesoro e la nomina alla Banca d’Italia, ha avuto solo una rapida parentesi alla banca Goldman Sachs. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è da un anno e mezzo manager in Leonardo–Finmeccanica dopo una vita da professore universitario.

Tutti gli altri sono dei brillantissimi funzionari pubblici che mai si sono misurati, come piace ai cantori dei poteri forti, con il mercato. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese è dipendente del Viminale dal 1979. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia insegna all’università dal 1993. Il ministro dell’Economia Daniele Franco è stato  assunto dalla Banca d’Italia nel 1979. Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, è stato assunto dall’Istat nel 1982 e poi si è spostato all’Ocse e all’università. Anche Patrizio Bianchi (Istruzione) e Maria Cristina Messa (Università) sono professori, quindi funzionari statali, da decenni.

Un discorso a parte merita il militare, Figliuolo, che da sempre è stipendiato dal ministero della Difesa. È vero che chi fa la carriera militare è per definizione un dipendente statale, a meno che non si arruoli in formazioni mercenarie. Per misurare l’impronta “militare” che la sua nomina imprime sul governo bisogna allora ragionare sui rapporti di forza sostanziali. Figliuolo è stato imposto a Draghi dai vertici  delle Forze armate? La risposta va cercata nella storia recente.

Fermo restando che il capo delle Forze armate, Costituzione alla mano, è Mattarella, i nostri generali negli ultimi anni hanno ruotato continuamente in posizioni di vertice a cui si arriva dopo lunghi duelli tra pretendenti appoggiati da correnti politiche contrapposte.

I militari italiani in genere frequentano i ministeri non per dare ordini ai politici ma per mettersi sull’attenti di fronte a chi fa le nomine. Come loro, tutti i “tecnocrati” appena nominati hanno una lunga abitudine a interagire – rispettosamente e fruttuosamente – con i ras della politica. Gabrielli addirittura proviene dal Movimento giovanile Dc.

Insomma, niente paura: la democrazia non è in pericolo. Anche stavolta è la politica a dare le carte, perché sa a chi rivolgersi: i ministri vanno e vengono, e la vera tecnocrazia al potere è quella di sempre, i consiglieri di stato che presidiano stabilmente (come capi di gabinetto e simili) gli snodi decisivi dei ministeri.

Devono essere molto bravi, o molto potenti, se neppure il governo “oligarchico” ha ritenuto di cambiarli. E c’è semmai da augurarsi che i cosiddetti tecnocrati, in una vita da funzionari ministeriali, abbiano imparato come contenere il vero potere tecnocratico. Che in Italia è quello dei laureati in giurisprudenza.

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