da: Domani – di Emiliano Fittipaldi
Tra poche settimane dovranno essere rinnovati i vertici delle spa dello stato. Tensione tra il governo e i partiti. Il premier vuole decidere insieme ai suoi fedelissimi i nomi degli amministratori delegati di Cdp, Anas e Fs. Anche i servizi segreti a rischio spoils system. In Rai la politica avrà più spazio. Giorgetti è l’unico ministro che avrà peso.
Con la nuova stagione delle nomine ormai alle porte si scioglieranno alcuni interrogativi. Si capirà in primis se il nuovo governo privilegerà il merito alla solita lottizzazione. E se a palazzo Chigi comanda davvero soltanto Mario Draghi, oppure anche i partiti avranno la possibilità di muovere qualche pedina. Riuscendo a piazzare qualcuno tra gli amministratori delegati, presidenti e membri dei cda delle aziende di stato che devono essere rinnovati a breve.
Il premier è uomo da ultimo miglio, e i nomi dei nuovi capi di Ferrovie, della Rai, di Cassa depositi e prestiti e Anas saranno decisi (esclusa Saipem, la cui assemblea è prevista entro aprile) a primavera inoltrata. Eppure a sentire decisori e mandarini d’esperienza, le regole d’ingaggio della partita sono già chiare: gli sherpa della maggioranza saranno certamente consultati, ma l’ultima voce in capitolo sarà quella dell’ex banchiere e dei suoi colonnelli. Solo in Rai, forse, la politica potrà scegliere un timoniere capace di mediare gli appetiti di Pd, Lega, M5Ss e Forza Italia. Draghi coordinerà le sue scelte con quattro persone: il ministro dell’Economia, Daniele Franco, il sottosegretario Roberto Garofoli, il consigliere economico Francesco Giavazzi e – in merito ad alcuni dossier specifici – con Franco Gabrielli. Un civil servant che rappresenta non solo l’autorità
delegata, ma un pivot a cui il presidente del Consiglio chiede suggerimenti su questioni che esulano dai servizi segreti: ex capo della polizia, della Protezione civile e dell’Aisi, Draghi considera Gabrielli un profondo conoscitore del sistema istituzionale del paese e degli uomini che lo compongono.Da Saipem a Cdp
Rispetto al gruppetto di sfondamento, i politici conteranno dunque meno del solito: per il Pd tratteranno le nomine Enrico Letta e Dario Franceschini, per i grillini Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli (è il neo ministro dell’Agricoltura il vero emissario di Giuseppe Conte), il rampante Sestino Giacomoni e l’immortale Gianni Letta sono i plenipotenziari di Forza Italia. Ma tra gli onorevoli e i ministri capacità di influenza effettiva sulle scelte finali l’avrà solo Giancarlo Giorgetti. Perché è titolare dello Sviluppo economico, certo, ma soprattutto è l’unico membro del consiglio dei ministri a poter vantare una solida conoscenza pregressa con Draghi, che a sua volta lo stima.
Partiamo dalle scadenze più cogenti. In Saipem il presidente Francesco Caio è dato in pole position per essere promosso ad al posto di Stefano Cao, che difficilmente riuscirà ad ottenere il terzo agognato mandato. Il 13 maggio, poi, è prevista l’assemblea di Cassa depositi e prestiti, insieme a Fs e Rai la partecipata più importante da rinnovare. La società controllata dal Mef e dalle fondazioni bancarie gestisce i 200 miliardi di euro del risparmio postale degli italiani, ed è al centro da mesi di delicate operazioni industriali e finanziarie. Il presidente Giovanni Gorno Tempini, vicinissimo al numero uno di Acri Francesco Profumo, è quasi certo di rimanere al suo posto. Più incerto, invece, sembra il futuro di Fabrizio Palermo. Fosse rimasto Conte a palazzo Chigi, il domino era già stato pianificato nei dettagli: Palermo spostato a Leonardo al posto di Alessandro Profumo, con contestuale promozione di Domenico Arcuri, ad di Invitalia a cui l’ex premier aveva promesso – dopo avergli affidato il commissariato all’emergenza Covid – un salto di carriera proprio in Cassa.
Con l’arrivo di Draghi il progetto è naufragato. Non solo perché Arcuri senza il suo dante causa ha perso sia la poltrona di commissario sia la sponda politica. Ma anche perché al capo del Mef Franco non dispiacerebbe di nominare capo di Cdp Dario Scannapieco. Per l’apprezzamento incondizionato verso l’attuale vicepresidente della Bei (che guadagnerebbe in Italia una cifra leggermente più bassa che in Germania, dove gode di alcune agevolazioni fiscali). E perché al Mef valutano il triennio di Palermo positivo, ma non eccellente.
Il manager fu piazzato a via Goito da Di Maio e Riccardo Fraccaro. Nel 2018 fu l’unica grande nomina imposta dai grillini: la loro strategia prevedeva che conquistando Cdp avrebbero potuto avere una sorta di governance indiretta anche sulle società pubbliche di cui Cassa detiene pacchetti azionari, come Eni, Enel e Poste. Disegno che – a causa dell’opposizione degli altri amministratori delegati – non si è mai realizzato.
Palermo si è così concentrato dentro casa sua, aumentando gli investimenti miliardari sul territorio, accrescendo il ruolo di player nazionale (e il numero di dipendenti, che oggi sfiora le mille unità), concentrandosi sull’acquisto di partecipazioni in aziende di ogni tipo. Una politica che ha portato alla chiusura di deal di successo, come la fusione tra la Sia e Nexi (che ha fatto nascere colosso dei pagamenti elettronici) e la nascita di Webuild, multinazionale delle costruzioni nato dalla fusione tra Salini-Impregilo e Astaldi.
A palazzo Chigi, però, chi vuole sostituire Palermo segnala che altri dossier decisivi languono da mesi: l’acquisizione di Autostrade dai Benetton è una telenovela ancora aperta, così come la questione della rete unica e di Open Fiber, spa co-partecipata da Enel e Cdp. Una vicenda che si è complicata con la mossa non concordata (ma finanziariamente azzeccata) dell’ad dell’azienda elettrica Francesco Starace di vendere quasi tutta la quota Enel di Open Fiber agli australiani di Macquire a un prezzo da capogiro. Scelta che però ha lasciato Cdp (e i futuri promessi sposi di Tim) con il cerino in mano. I nemici di Palermo lo considerano il principale responsabile dello stallo, dimenticando che colpe ben più rilevanti vanno addossate alla vecchia maggioranza giallorossa. I cui esponenti al Mef non sono riusciti nemmeno a far sedere il capo di Cdp e l’ad di Poste Matteo Del Fante allo stesso tavolo, in modo da trovare un accordo per il rinnovo della convenzione da 1,7 miliardi (scaduta lo scorso 31 dicembre) sul business fondamentale dei buoni postali del Tesoro. Ancora oggi vige il regime di prorogatio, perché – dicono dal Mef – Palermo non ha ancora trovato una quadra. Palermo resta comunque ottimista: i Cinque stelle non hanno più la stessa forza di un tempo e non possono blindarlo, ma il manager spera che nuove relazioni intrecciate recentemente con Giorgetti possano portare Draghi e Franco a più miti consigli. Oppure fruttagli il trasloco in un’altra società importante come Leonardo.
Profumo trema
A Piazza Montegrappa, anche se l’ad Alessandro Profumo di Leonardo è stato riconfermato solo un anno fa, l’atmosfera non è infatti tranquilla. Le cause sono note: i conti non brillanti, la recente condanna in primo grado a sei anni per aggiotaggio inflitta all’ad in merito a presunte irregolarità avvenute durante la sua gestione della banca senese Monte dei Paschi. Infine, il rinvio a sorpresa dell’offerta pubblica di vendita di quote della controllata americana Drs, che ha indotto Matteo Salvini a chiedere la testa dei vertici manageriali.
Già tre mesi fa in molti scommettevano che se Conte fosse rimasto premier avrebbe sostituito Profumo in tempi rapidi, spinto dall’ala oltranzista dei grillini. L’arrivo di Draghi ha messo nel freezer le polemiche, mentre assoluzione dell’ad dell’Eni Claudio De Scalzi dalla vicenda nigeriana ha consolidato la posizione del banchiere: avere due top manager condannati a capo delle due aziende più strategiche del paese sarebbe stato insostenibile.
Entro poche settimane, però, sono attese le motivazioni della sentenza. E qualcuno nei palazzi teme che, se fossero severissime come ipotizzato dal deep state, Profumo potrebbe perdere il Nos, cioè il nulla osta di sicurezza che consente ai manager di Stato di trattare informazioni con classifica di segretezza superiore a “riservato”. Pane quotidiano per chi opera in Leonardo. La sospensione dell’abilitazione (esiziale per chi deve stipulare contratti e muoversi sui mercati internazionali) può essere presa solo dall’Ucse, l’ufficio centrale per la segretezza incardinato nel Dis, il dipartimento di palazzo Chigi che coordina i nostri servizi. «Sono solo voci incontrollate, non c’è alcuna decisione in vista sul Nos di Profumo», dicono fonti dell’intelligence. Si vedrà. Certamente la questione è principalmente politica.
Saltasse Profumo (i suoi rapporti con Gabrielli sono cortesi, ma la vecchia amicizia del banchiere con Gianni De Gennaro non permette di andare oltre la forma) non è nemmeno detto che il successore sia davvero un esterno: i manager capaci della cantera non si contano, e non è un segreto che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini apprezzi il profilo di Lorenzo Mariani, spostato tempo fa al consorzio europeo Mdba ma considerato uno degli astri nascenti del colosso degli armamenti.
Il tesoro di Ferrovie
La conferma in blocco degli ad non è comunque evento improbabile. È un fatto che Draghi abbia sostituito senza pensarci due volte Domenico Arcuri e l’ex capo della protezione civile con il generale Francesco Paolo Figliuolo (indicato dal ministro della Difesa Guerini) e Fabrizio Curcio, ma il premier – se convinto della bontà del lavoro fatto dagli uscenti – non escluderà alcuna riconferma. Anche quella di Gianfranco Battisti alle Fs. Vero che l’azienda e il nome del manager sono finite qualche mese fa sulle pagine dei giornali a causa di una serie di perquisizioni dei magistrati della procura di Roma che indagano su presunti episodi di corruzione, ma la vicenda giudiziaria per ora non ha avuto ulteriori strascichi. Nessun avviso di garanzia è planato sulle scrivanie dei vertici. Battisti (vicino al M5s e all’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli) viene però dato in uscita soprattutto da chi punta su Arrigo Giana, direttore dell’Atm di Milano stimatissimo dai democrat, e da coloro che sognano il ritorno di Renato Mazzoncini, renziano della prima ora oggi all’A2A di Brescia.
Chiunque vinca la corsa, il futuro amministratore delegato di Fs potrà gestire gli oltre 40 miliardi di euro di investimenti previsti dai piani industriali e dalla bozza del recovery plan. Soldi destinati non solo alle infrastrutture ferroviarie e dell’Alta velocità, ma anche a progetti legati al settore turistico, alla sostenibilità e al climate change.
Un fiume di denaro che fa gola a molti: anche Giorgetti e la Lega, che non amano l’attuale assetto dirigenziale, faranno di tutto per mettere a Fs un uomo di loro fiducia. Draghi ha chiesto comunque a Franco di usare, nel caso non sia convinto dei nomi in circolazione, cacciatori di teste per selezionare candidati validi. E non è impossibile che dalla scrematura – in caso di sostituzione di Battisti che ad oggi ha il 50 per cento di possibilità di rimanere – spunti qualche outsider come Donato Iacovone, ex Ernst&Young e presidente di Webuild che cerca una nomina operativa in una partecipata importante.
Traballa Vecchione
Sui servizi segreti invece non ci sarà alcuna condivisione nelle scelte. Le prenderà Draghi, in tandem con Gabrielli. I capi delle tre agenzie sono stati rinnovati dall’ex premier Conte, ma se il direttore dell’Aise Gianni Caravelli è saldo sulla sedia di Forte Braschi, Mario Parente capo dell’Aisi aspetta una nuova riconferma, dopo la proroga tecnica ottenuta a giugno 2020. In tanti, invece, scommettono che il numero uno del Dis Gennaro Vecchione possa essere sostituito anzitempo. Non solo perché il generale della Finanza è stato uno dei pupilli di Conte, ma anche perché la nuova amministrazione Biden a trazione democratica e la Cia – ancora scottati dalla vicenda Russiagate e dalle sue implicazioni italiane – si aspettano da Draghi un segnale di discontinuità. Sulla figura di Vecchione, infatti, pesa ancora il pasticcio della visita dell’ex ministro della Giustizia americano William Barr, che nell’estate del 2019 riuscì ad ottenere – grazie al via libera di Conte - due incontri riservati con i vertici dei nostri servizi. La missione del trumpiano era una sola: ottenere informazioni utili a portare avanti un’investigazione che, partendo dall’indagine “Russiagate” nella quale l’ex presidente Usa era sospettato di aver avuto rapporti con i russi durante la campagna per le presidenziali del 2016, ipotizzava un ribaltamento della narrazione. Dove il magnate populista non era più il cattivo, ma la vittima di una fantomatica cospirazione ordita da pezzi della Cia e dell’Fbi vicini all’amministrazione Obama. Un complotto in cui avrebbe giocato un ruolo anche l’Italia, allora guidata dal governo Renzi.
Conte e Vecchione furono i registi degli anomali randez-vous con Barr. Se è vero che il capo del Dis ha sempre sostenuto di non aver mai dato alcuna notizia rilevante al’ex procuratore generale, per l’intelligence americana (e per la segreteria di Stato guidata oggi dall’obamiano Anthony Blinken) solo il fatto di essersi dimostrato disponibile all’interlocuzione con chi stava lavorando per infangarli è un errore da matita blu. «I democratici non danno importanza alla vicenda in sé, ma è difficile credere che un nostro ministro abbia volato per 12 ore da Washington a Roma per fare un secondo incontro operativo, senza che nessuno gli avesse garantito prima una qualche collaborazione», dice una qualificata fonte Usa.
Se Vecchione perdesse i suoi privilegi, a Palazzo Chigi qualcuno ha già qualche soluzione alternative. La prima: spostare Parente al Dis e nominare un nuovo capo all’Aisi (si fanno i nomi di Vittorio Pisani e soprattutto del prefetto Vittorio Rizzi). La seconda: riconfermare Parente all’Aisi e sostituire solo Vecchione. Un dato è però probabile: Gabrielli (uno che non ha paura di decidere, quando arrivò al Sisde rispedì nei rispettivi corpi una cinquantina di effettivi) vuole promuovere un poliziotto, dal momento che la Finanza gestisce già i servizi esterni e i carabinieri, da lustri, si alternano alla guida della sicurezza interna. Ecco perché Agostino Agovino, generale dell’Arma oggi braccio destro di Caravelli, non punta più a una direzione, ma alla conferma del suo posto da vice. Tutti gli uomini della Rai
Se anche i nuovi ras di Anas saranno scelti dal Mef, che pare avrà carta bianca anche sul Gestore dei servizi energetici (Gse) e su Sogei, il rinnovo dei vertici Rai potrebbe essere l’unico nodo che Draghi lascerà sciogliere ai partiti. L’ad Fabrizio Salini e il presidente sovranista Marcello Foa non verranno riconfermati, e con loro gran parte dei direttori di rete e dei telegiornali perderanno i loro incarichi.
Le forze politiche che sostengono Draghi sono tante, e non sarà affatto facile trovare un equilibrio che accontenti tutti. Per la Lega sarà Giorgetti ad occuparsi della pratica (la sua idea ad oggi è quella di puntare su un manager esterno di “numeri”: tra tanti nomi, spicca quello del ceo di Google Italia Fabio Vaccarono), nonostante Salvini voglia metterci il becco ad ogni costo. Al leader leghista non è mai andata giù la defenestrazione di un’amica come l’ex direttore di Raiuno Teresa De Santis, e qualche capostruttura già vaticina un suo (difficile) ritorno.
Il centrodestra, nonostante Giorgia Meloni sia all’opposizione, sulla partita di Viale Mazzini cercherà comunque di muoversi all’unisono. Al di là dell’ad e del presidente, saranno decine le posizioni da spartirsi, comprese quelle delle controllate, delle cosiddette direzioni di genere, di canali minori ma dal budget invitante (Rai Cinque o Rai Gold gestiscono rispettivamente nove e sei milioni di euro l’anno).
Si sa che Fratelli d’Italia spinga forte su Giampaolo Rossi, oggi membro del cda, e che Paolo Del Brocco di Rai Cinema abbia più di un estimatore dentro Pd, Iv e Forza Italia.
I giornali scrivono correttamente che Enrico Letta punta invece su Alberto Matassino, cinquantenne di Battipaglia e attuale direttore corporate, e su Eleonora “Tinny” Andreatta, ex capo della fiction che ha traslocato da poco a Netflix. Per gli addetti ai lavori la figlia del Dc Beniamino avrebbe tutte le skill giuste per rilanciare il servizio pubblico, non ultima quella di garantire il rispetto, nel grande risiko, delle quote rosa. Le controindicazioni esistono, e riguardano anche il vil denaro: l’ad della Rai prende 240mila euro l’anno, mentre l’attuale vicepresidente della piattaforma streaming molto di più.
Anche Silvio Berlusconi, infine, non sta con le mani in mano. Viene costantemente informato del dossier Rai dal neosottosegretario con delega all’editoria Giuseppe Moles, che sul tema nomine e alleanze ha già fatto qualche incontro riservato nel suo ufficio con l’altro forzista Alberto Barachini, presidente della commissione di Vigilanza. Saranno loro due (insieme a Gianni Letta e Luigi Bisignani, ringalluzzito dalla recente assoluzione dell’inchiesta su Eni-Nigeria) a smistare le fila di dirigenti e giornalisti di aria centrodestra che stanno cercando di capire come ricollocarsi.
Perché
non c’è merito o Draghi che tengano: i riti della tv pubblica non
cambiano mai.
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