mercoledì 31 marzo 2021

Sandra Bonsanti: Colpevoli / 2

 


 

Gelli, Andreotti e Moro

C’era stata una prima volta. Un giorno in cui qualcosa che mi fu chiesto mi sembrò irrituale. Non sapevo raccontarlo nemmeno a me stessa, e forse anche oggi sarò imprecisa. Certo quello che accadde non apparteneva alla storia della mia vita, alle abitudini e agli ambienti che mi erano familiari.

Erano i primi anni Settanta, forse il 1974, ed ero approdata (dopo alcune traversie al settimanale «Il Mondo»), alla redazione romana di «Epoca». In quei giorni le cronache parlavano di una storia di trafficanti d’armi di Bonn che ricordo per sommi capi. Raffaello Uboldi, caporedattore della redazione romana, aveva deciso che sarebbe stato interessante cercare il protagonista e capire se esistevano dei collegamenti italiani.

Il trafficante si chiamava Gerhard Mertins, possedeva una grande ditta di export, e i socialdemocratici tedeschi lo stavano attaccando insieme al suo amico Reinhard Gehlen, responsabile dei servizi segreti. Gehlen era stato il generale della Wehrmacht a capo del servizio segreto di Hitler. Finita la guerra, in funzione antisovietica, gli era stato affidato lo stesso ruolo. Trovai l’indirizzo di Mertins, una villa che sovrastava il Reno. Non mi fecero entrare e attesi al cancello fin quando arrivò, mi disse che solo per cortesia mi avrebbe fatto entrare ma che non aveva mai rilasciato un’intervista in vita sua. Prendemmo un caffè attorno a un tavolo il cui piano di vetro era adagiato su una collezione di monete di mezzo mondo.

Herr Mertins mi raccontò dei suoi trascorsi e si dilungò piacevolmente a parlare dei suoi molti amici italiani, compreso il generale Vito Miceli, già capo dei servizi segreti (e tessera n. 1605 della P2). «So che da voi l’ex capo del Sid è sotto accusa» mi disse, «ma il governo ha il dovere di proteggere le azioni degli agenti segreti perché essi sono patrioti e veri idealisti.» Ovviamente non mi rispose quando cercai di approfondire le accuse che gli facevano i socialdemocratici tedeschi: indagando sul caso Günter Guillaume, la spia che aveva fatto cadere il cancelliere Willy Brandt, avevano scoperto che Gehlen aveva creato all’interno dei servizi una sua organizzazione personale, fatta di ex gerarchi nazisti, allo scopo di raccogliere dossier su politici e personalità di rilievo, esercitare azioni di spionaggio all’interno del Partito socialdemocratico, arruolare una sessantina di giornalisti e organizzare un traffico d’armi.

Una storia che aveva tanto in comune con quella che stavamo vivendo in Italia, P2 compresa.

L’articolo uscì col titolo Spie nere in Germania ed era corredato da un’intervista a un deputato socialdemocratico che aveva presentato al governo federale due interrogazioni su un viaggio compiuto in Germania nel ’69 da due informatori e neofascisti italiani: Guido Giannettini e Pino Rauti.

Appena «Epoca» fu in edicola, mi cercò un amico giornalista che mi disse: «Sai, al presidente è interessato molto il tuo articolo». Proseguì: «Desidererebbe ascoltare la registrazione dell’intervista, chiede se potesse avere il testo completo».

Non lo lasciai nemmeno finire. Era chiaro che il presidente era Andreotti, del quale il padre del mio amico era uno stretto collaboratore. «Tutto quello che mi ha detto io l’ho scritto, non c’è altro» replicai.

Non era vero: avevo tenuto per me, allo scopo di verificarle, le dichiarazioni riguardanti i complici italiani. Mi dispiacque essere così fredda e sbrigativa, ma quella richiesta mi aveva disturbato probabilmente più di quanto fosse nelle intenzioni. Mi seccava che un uomo politico così potente pensasse che avrei potuto dare a lui, quasi fossi una sua personale collaboratrice, informazioni che non avevo divulgato ai lettori.

Così andavano le cose.

È anche possibile che Andreotti non ne sapesse nulla. Ma la richiesta era comunque la spia di come poteva esser costruito, mattone dopo mattone e con estrema cortesia, una sorta di recinto di amici e in particolare di giornalisti amici, il che era molto più grave. Sono passati tanti anni… Forse c’è ancora un’Italia che viene da lì, un manipolo di vecchi attori che ancora oggi, lontano dal proscenio, dove l’aria è pesante, aspettano di essere imbalsamati e dimenticati. Mi è capitato fino a qualche anno fa di incontrarne qualcuno per strada e il loro sguardo mi diceva: «Vedi, siamo ancora qui, nulla è successo».

Comunque diventai da allora più che sospettosa. Con il passare degli anni seppi che a monte di quel contatto c’era l’uomo che è stato sempre il più stretto, antico e intimo collaboratore e amico di Andreotti, Giorgio Ceccherini. Inseparabili dagli inizi degli anni Quaranta, quando Andreotti era diventato presidente della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, Andreotti e Ceccherini si erano laureati lo stesso giorno, il 10 novembre 1941. La tesi di Andreotti aveva per titolo Il fine delle pene ecclesiastiche e la personalità del delinquente nel Diritto della Chiesa. Voto: 110/110.

Massimo Franco ricorda nella sua biografia che la notizia uscita sul quindicinale della Fuci recitava:

Il 10 corr. hanno conseguito la laurea in Giurisprudenza nella Regia Università di Roma, a pieni voti, il Reggente della Presidenza Centrale, Giulio Andreotti, e il Segretario Generale della stessa Presidenza, Giorgio Ceccherini.

Da allora, sempre insieme. Fino al celebre «Concretezza», il quindicinale fondato da Andreotti nel 1955 di cui Ceccherini era redattore capo.

È possibile che il mio giudizio negativo sull’uomo politico più potente, misterioso e inquietante della Prima repubblica risenta dell’aver capito per tempo che avrei dovuto tenermi rigorosamente lontana da qualunque offerta di rapporti cortesi ma non del tutto professionali. Quasi tutti i militanti di estrema destra che incontrai in quegli anni consideravano Andreotti un loro punto di riferimento sicuro. Altri, soprattutto i romani, ritenevano di esser stati traditi: non aveva mantenuto le promesse. Dicevano: «C’è un giuda tra noi».

Qualcosa di simile deve essere accaduto, anni dopo, nei rapporti fra Andreotti e alcuni boss della mafia: quando il gioco era troppo rischioso, mollati e rinnegati.

Il politico più importante e potente della Prima repubblica era lo Stato e l’anti-Stato.

Ho avuto paura di Andreotti – delle sue minacce, racconterò più avanti, fu latore Franco Evangelisti –, per questo credo di esser stata anche molto severa. Una via di mezzo non sarebbe stata possibile.

Ma quando si sono conosciuti, Gelli e Andreotti, Belfagor e Belzebù?

Andreotti ha sempre sorvolato sulla cerimonia di insediamento di Perón, quella sera di ottobre del 1973 in cui era stato fotografato accanto a Licio Gelli, nello scatto che aveva fatto la felicità di Bettino Craxi. Andreotti ha sostenuto anzi di essersi meravigliato della presenza di quel Gelli che assomigliava tanto al direttore della Permaflex che aveva incontrato a Frosinone nel lontano 1961, quando il futuro capo della P2 dirigeva la fabbrica di materassi. E Frosinone, ci spiega Massimo Franco, era «in pieno feudo elettorale andreottiano».

Dodici anni dopo, dunque, nell’ottobre del 1973, avviene l’incontro a Buenos Aires. E lì la sorpresa di Andreotti: ma guarda chi c’è, il direttore della Permaflex!

Il capo della P2 invece ha raccontato un’altra storia, che testimonia una conoscenza assai più concreta. Il Venerabile ha detto che Andreotti lo aveva avvicinato durante la cerimonia e gli aveva chiesto «se fosse possibile, prima del rientro in Italia, avere un colloquio riservato col presidente». Per poi aggiungere: «Me ne occupai all’istante e Perón fissò un appuntamento il giorno successivo. Andai personalmente a prendere Andreotti con la scorta».

A Roma si erano rivisti, discutendo solo dei desaparecidos, sostiene Andreotti. Poi capita che un bravo giornalista decida di fare una lunga ed esaustiva intervista a Gelli. Lui è Sandro Neri e dal 2017 dirige «Il Giorno». Il libro che la contiene si chiama Parola di Venerabile ed esce nel 2006 con una mia prefazione. Neri ha interrogato Gelli su tutto quello che c’era da chiedergli. Ne è uscito un documento molto interessante, anche se inevitabilmente zeppo di silenzi e bugie. Mi colpisce una fotografia. Leggo la didascalia: «A fianco: con Giulio Andreotti a un’esposizione alla Fiera di Milano nel 1959». Gelli-Belfagor e Andreotti-Belzebù sono in piedi uno accanto all’altro, Gelli vestito di chiaro e Andreotti in doppiopetto scuro. Sereni. Forse già sono intimi uno dell’altro, chissà. Ancora prima dell’incontro a Frosinone del ’61. Sempre a causa di quella benedetta Permaflex che proprio in feudo andreottiano aveva messo radici, prima di trasferirsi definitivamente ad Arezzo?

Insomma, tra i due è documentata una vecchissima conoscenza. Patetici saranno i tentativi di Andreotti di fingere sorpresa ogni volta che si trova accanto a Gelli.

Verso la fine dell’intervista, Neri chiede a Gelli: «Ma qual era l’obiettivo della P2?».

«Governare senza essere al governo. Fornire suggerimenti e stimoli che potessero risultare utili» è la risposta. Quale miglior definizione del Potere occulto che tanto inquietava Norberto Bobbio?

Chissà se andò veramente così, come racconta Gelli a Neri, anche l’incontro del Venerabile con Aldo Moro. Siamo nel 1974, Moro è ministro degli Esteri e Gelli va a presentargli le credenziali di consigliere economico presso l’Ambasciata argentina in Italia. Moro lo rimprovera: «Ma come? In quel paese c’è una dittatura. Lei dovrebbe lavorare per l’Italia che è una democrazia». Gelli risponde di avere doppia nazionalità, e aggiunge: «E avrei sempre lavorato anche per l’Italia».

Ma Moro avrebbe insistito, avvertendo Gelli: «La democrazia è come una pentola di fagioli, che devono bollire piano piano perché possano cuocere bene».

«Allora replicai con una battuta» dice Gelli a Sandro Neri. «Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senz’acqua. Altrimenti si bruceranno.»

Moro scuote la testa: «Lei non è ancora pronto per la democrazia».

Se il racconto del Venerabile è attendibile, è evidente che Moro e Andreotti non la pensano allo stesso modo, non sono d’accordo nel giudizio sui rapporti con l’Argentina. Moro non è a suo agio, sa cosa avviene sotto la dittatura di Perón e dei suoi generali e si chiede come faccia un cittadino italiano a lavorare per quegli assassini.

Andreotti non dà giudizi, prende atto che Gelli è un ambasciatore dei generali. Non discute di democrazia e dittatura. Lui sa bene, ha visto il rispetto di Perón e degli altri per Gelli. Erano insieme nell’ottobre del ’73, alla Casa Rosada, in mezzo agli uomini della Guardia presidenziale. Accanto a José López Rega, al generale Jorge Rafael Videla, al generale Emilio Eduardo Massera (tessera P2 n. 1755, iscritto il 1° gennaio 1977) e ad altri ancora. Il potere dei dittatori argentini così strettamente connesso alla loggia di Gelli.

Andreotti sa e non condanna.

Moro sa e scuote la testa.

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