da: Domani – di Stefano Balassone analista dei media
Fra poche settimane il consiglio di amministrazione Rai suggellerà il suo terzo bilancio e giungerà quasi simultaneamente alla scadenza del mandato. Non ha avuto vita facile, preso in mezzo fra il Conte gialloverde e quello giallorosso, e ha sostanzialmente perso tempo fra i ludi ricorrenti delle nomine e i piani industriali, costosi, ma pensati per la carta e attentissimi a evitare i nodi da tagliare.
Ecco dunque che a tre anni dall’ultima infornata non è avanzata di un millimetro la soluzione del problema di un’azienda che la politica, vandalica e negligente, lascia sprofondare in un cantone, fra strettezze di bilancio e vuoto di missione. Tanto che secondo le chiacchiere nei bar, la Rai è solo un cumulo di Repubbliche passate. Un semplice ramo secco da tagliare, irredimibile da una riforma, perfino oggi che, spinti dalla pandemia, si pone mano finalmente a ridisegnare i connotati strutturali del paese. Una contraddizione insopportabile per chi ritiene invece che quel corpo tramortito potrebbe fornire una informazione attendibile e una spinta strutturale allo sviluppo della produzione audiovisiva nazionale.
Ecco perché, sfidando le risate di chi punta soltanto a un cda con terga rinnovate, pensiamo che mai come ora sia giusto, necessario e possibile impostare la riforma strutturale del servizio pubblico radiotelevisivo, il suo rapporto con la politica, il senso della sua esistenza, il suo peso negli obiettivi nazionali di sviluppo.
Cosa cambiare
La faccenda, pur essendo fuori dai radar dell’attenzione popolare, sta a cuore praticamente a tutti quelli che minimamente se ne intendono e la situazione è tale che il meglio sarebbe fare tutto e subito. Se poi la fregola delle nomine prossime fosse incontenibile si potrebbe immaginare uno schema su due binari.
Nel primo, cortissimo, si arrivi pure al rinnovo del consiglio di amministrazione Rai “stando così le cose”, sicché l’azienda avrebbe un vertice in grado di durare per un triennio, a cavallo tra questo e il futuro parlamento. In sostanza, chi nominerà nell’oggi non sarà affatto certo di rifarlo nel domani perché sul risultato elettorale nessuno attualmente può giurare.
Proprio l’incertezza di ognuno circa i rapporti di forza nel futuro potrebbe tentare i partiti di avviare su un secondo binario, un disegno di legge di riforma profonda e strutturale del rapporto fra la politica e la Rai. Così da mettere l’azienda fuori portata dalla voglia di egemonia di chiunque avrà vinto le elezioni. Sul piano pratico, senza tante chiacchiere basterebbe, senza perdersi in questioni secondarie, porre mano al modo di formazione del “proprietario dell’azienda”.
La Rai è una società per azioni di cui lo stato, tramite il ministero dell’Economia, detiene il capitale. A differenza che in altri casi analoghi, tuttavia, il ministro competente non può nominare i vertici aziendali (presidente, amministratore delegato e consiglieri) se non aggiungendosi al bilancino parlamentare lottizzato. Dopo di che tutta la compagnia vivacchia inseguita dalla comune data di scadenza, fermo restando che se qualcuno viene meno un sostituto ne prenderà il posto per il residuo di tempo previsto nel mandato.
Serve un collegio
L’essenziale della riforma consiste nello scompigliare il meccanismo appena qui descritto, prescrivendo con la forza di una legge che il “collegio” investito dei poteri proprietari sia composto (oltre al designato dal personale) da membri nominati ciascuno per suo conto e con diverse durate di mandato. In tal modo non scadranno tutti insieme e il gioco di singoli rimpiazzi potrà fare evolvere l’assortimento politico culturale, ma senza esporlo a improvvisi ribaltoni. In più, ogni forza politica dotata di un minimo di senno non designerà, quando le toccasse in sorte di farlo, asini docili alla soma e al comando, ma tipi svegli e competenti, capaci di pesare sempre e comunque dentro un collegio dagli equilibri imprevedibili.
Questo approccio è quello che presiede alla formazione del consiglio Bbc, i cui membri provengono da varie designazioni separate, di governo e territori. Se il marchingegno funziona in Gran Bretagna può funzionare anche da noi, al di là delle battute idiote sulla fatale differenza fra l’acqua del Tevere e quella del Tamigi. Il nuovo collegio proprietario (o comunque lo si voglia chiamare) erediterà il cda della spa Rai in carica al momento, ma disponendo di tutti i poteri necessari a cambiarne dimensione e componenti. Da quel momento in poi il governo avrà nella nuova proprietà della Rai l’interlocutore con cui definire le questioni politiche ed economiche connesse al disegno di un futuro del servizio pubblico.
La prima questione consiste nel fare i conti con l’equilibrio quarantennale del duopolio, ancorato a una Rai che salva gli stipendi grazie ai ricavi pubblicitari (nel 2019 623 milioni di euro rispetto a 1.789 milioni di euro di canone) ma imbastardendo il senso del servizio perché chi investe in pubblicità spinge, va da sé, per la caccia al target anziché all’ascolto largo e variegato punto e basta. Aggiungi che proprio la massiccia presenza della Rai nel mercato pubblicitario funge da scudo contro eventuali privati che volessero turbare la posizione dominante (2.925 milioni di euro) di Mediaset. Col bel risultato di avere il doppio fallimento, dello stato e del mercato, e per di più in uno spazio in cui Google, Facebook e compagnia sfilano sempre più risorse sia al Biscione che al Cavallo. È pronto, va verificato, il partito Mediaset, dentro e oltre Forza Italia, a fare a meno del giocattolo? O almeno, sono pronti gli altri a fargli muso duro? O, più utilmente visto che stanno insieme nel governo, è matura una trattativa su modi e tempi della rottamazione del duopolio? Cederà al panico il partito Rai all’ipotesi di alleggerire, e non di poco, la dipendenza dell’azienda dai ricavi pubblicitari? Sarà pronto il ministro Daniele Franco a fare la sua parte, ponendo fine al dirottamento di ben 366 milioni dei complessivi 2.155 milioni che costituiscono l’autentico e intero gettito del canone?
Chiunque
conosca l’abc dei nodi che stringono l’azienda sa perfettamente che una
proprietà autonoma o un diverso equilibrio di risorse a favore della componente
pubblica innescherebbero guadagni di produttività su larga scala e la costruzione
di un volto editoriale incommensurabilmente più coerente. Perché oggi il
servizio pubblico italiano non è gestito male, ma è compresso, il che per tanti
aspetti è molto peggio. Levato il peso che lo schiaccia, rimbalzerebbe
con poco sforzo fino ai piani alti dove stanno i confratelli di Francia,
Germania e Inghilterra.
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