martedì 9 marzo 2021

I credenti, i carrieristi e il professore. L’evoluzione dei Cinque stelle

 


da: Domani - di Marco Tarchi politologo

Fioccano in questi giorni, inevitabilmente, gli interrogativi sul futuro dei Cinque stelle, e in parallelo si accavallano analisi e pronostici, a volte mossi da curiosità, in altri casi influenzati dal quel desiderio di rappresentare le cose come si vorrebbe che fossero.

Qualunque sia la prospettiva da cui si abborda la questione, quattro sono comunque i dilemmi principali con cui ci si confronta: 1) Continuerà anche nei prossimi tempi l’attuale sfaldamento del movimento, alla base e nelle sedi elettive? 2) Il probabile affidamento delle redini a Giuseppe Conte metterà un freno all’ondata di polemiche e rancori interni che la contrastata adesione al governo Draghi ha acuito? 3) Riuscirà questa ennesima trovata uscita dal casco da astronauta di Grillo a invertire la tendenza al ribasso dei consensi che il M5s subisce da tre anni? 4) Su quali basi ideologico-programmatiche e tattico-strategiche si baserà questo tentativo di rilancio?

L’ingresso nel sistema

Alla radice di tutti questi punti di domanda c’è un processo in corso da quasi un decennio e che da sempre crea problemi alle formazioni politiche che hanno costruito il loro successo sulla capacità di catalizzare insoddisfazioni e proteste diffuse nel corpo sociale: la progressiva istituzionalizzazione, ovvero l’ingresso in quel “sistema” che ci si era prefissi di abbattere, conquistare o stravolgere e alle cui regole ci si trova costretti ad adeguarsi.

Pesante per tutti i movimenti a vocazione – almeno a parole – rivoluzionaria, questa incombenza lo è ancora di più per chi vi si trova coinvolto senza disporre di una solida armatura ideologica, che fra i suoi molteplici compiti ha anche quello di rassicurare i militanti che ogni concessione fatta non è altro che un inevitabile espediente provvisorio e che, sebbene i tempi di attesa siano destinati ad allungarsi, l’obiettivo finale resta ben saldo. E il partito creato da Beppe Grillo una corazza di questo tipo non l’ha mai posseduta.

Anzi: a ogni tornata elettorale si è fatto vanto di non possederla, presentandosi all’opinione pubblica come anti- o post-ideologico, dando per scontata l’obsolescenza dello spartiacque sinistra/destra e puntando tutte le sue carte sulla raccolta degli umori corrosivi verso l’establishment di quanti non sopportavano più l’ipocrisia, la corruzione e la vocazione al compromesso della classe politica, le lungaggini della burocrazia, i bizantinismi della prassi parlamentare, la tendenza dei partiti a dare ascolto alle esigenze dei “poteri forti” piuttosto che alle richieste dei cittadini.

L’esercito degli scontenti

Alimentato dall’inflazione delle promesse elettorali e dalla indiscutibile verve comunicativa del suo teatrale ispiratore, il voto per i Cinque stelle ha raccolto una considerevole parte di quell’esercito degli scontenti che una lunga serie di crisi, da Tangentopoli in poi, aveva ampliato a dismisura: un “cartello del No”, che il Vaffa grillino galvanizzava e soddisfaceva e che superava di gran lunga, in dimensioni, il ristretto nucleo di sostenitori attratti dai temi “civici” che gli scarni documenti ufficiali del M5s agitavano: acqua pubblica, trasporti gratuiti, energie pulite e via dicendo. Un dato che fin dall’inizio distanziava gli obiettivi di molti elettori da quelli coltivati dagli esponenti più in vista del gruppo, scavando un gap che l’incalzante vispolemica di Grillo, ispirata dalle intuizioni di Gianroberto Casaleggio, riusciva a colmare, ma che già dopo l’inaspettato responso delle urne del 2013 era emerso con evidenza, inaugurando la stagione delle scomuniche e delle espulsioni e decretando di fatto la fine del fatidico “uno vale uno”.

L’impatto con le costrizioni dettate dai ruoli istituzionali è stato retto, sia pur a prezzo di strigliate via blog di Grillo agli eletti e di non poche defezioni fra deputati e senatori, sino a quando è rimasta aperta la via dell’opposizione, salutare per tutte le formazioni che hanno nel sangue un alto tasso di populismo.

Poi ha iniziato a esercitare effetti sempre più gravi, peggiorati nella gimcana fra le alleanze di governo di diverso

colore ed esplosi in forma endemica con l’allineamento alla quasi totalità del panorama partitico nel sostegno all’esecutivo guidato da Draghi, che ha fatto gridare al tradimento degli ideali fondanti del movimento non solo più un sostanzioso contingente di votanti ma anche un cospicuo numero di eletti.

La fioritura delle più diverse ipotesi di risposta alla crisi – la sin qui indefinita ristrutturazione organizzativa che sarebbe affidata a Conte, in contrasto con la guida collegiale scelta (con partecipazione ridotta ai minimi termini) dalla base per via telematica, l’alleanza strategica con Pd e Leu con conseguente rivendicazione di un’identità progressista, la concorrente professione di fede liberale e atlantista di Di Maio, il ritorno alle origini reclamato dagli “ortodossi” non (ancora) fuoriusciti – testimonia non solo lo smarrimento generalizzato che oggi regna nelle file grilline, ma anche il crescente scollamento tra le diverse anime da sempre fra di esse presenti, che rischia di diventare irreparabile.

Dai credenti ai carrieristi

La terza consecutiva esperienza di governo pone infatti in diretto contrasto quelle due componenti, presenti in ogni partito – e in ogni movimento che si trasforma inpartito – le cui differenze si accentuano con il progredire dell’istituzionalizzazione, che Angelo Panebianco aveva individuato quasi quarant’anni orsono in un libro (Modelli di partito, il Mulino) che ancora oggi fa testo negli studi internazionali di scienza politica: i credenti e i carrieristi.

Etichette che niente hanno a che vedere con un giudizio morale ma semplicemente, scriveva il politologo, distinguono i militanti «la cui partecipazione dipende, prevalentemente, da incentivi collettivi di identità» da quelli in cui essa è condizionata invece «da incentivi selettivi, materiali e/o di status».

È evidente che nei suoi primi anni di vita il M5s ha attratto esclusivamente sostenitori e attivisti del primo tipo: neofiti della politica, dilettanti che non avevano di fronte a sé alcuna prospettiva certa di carriera e investivano tempo e impegno in nome degli ideali che coltivavano. Sin dai primi successi elettorali in sede locale, il quadro si è però modificato. Pur protetto dalle rigide norme del «non statuto», che impedivano ingressi laterali di esponenti di altri partiti in cerca di riciclaggio, il movimento ha visto crescere all’interno un ceto politico indotto, se non obbligato, dalle esigenze degli organi rappresentativi a professionalizzarsi e a specializzarsi.

Con i prevedibili effetti: la convinzione di dover essere retribuiti per le risorse profuse – e la connessa renitenza a rinunciare a parte delle indennità – la voglia di proseguire nell’esperienza fatta – e l’insofferenza al limite dei due mandati elettivi – l’abitudine a prassi che in precedenza erano viste con sospetto o sdegno, la socializzazione con esponenti di forze politiche un tempo giudicate infrequentabili.

Tutto il resto è venuto di conseguenza: l’ambizione a ricoprire ruoli di governo e l’accettazione di alleanze e compromessi pur di giungere allo scopo, procrastinando un giudizio delle urne che si presume sfavorevole. La logica e la forza degli incentivi individuali materiali e di status l’hanno quindi avuta vinta su quelle degli incentivi dell’identità collettiva. E i credenti si sono, in larga misura, trasformati in carrieristi. Tutto questo, però, è accaduto fra gli eletti grillini. Diverso è il discorso se si guarda agli elettori pentastellati. Su di loro hanno agito soprattutto, se non soltanto, gli incentivi ideali. Svaniti quelli, viene meno la ragione della scelta fatta.

Saprà la metamorfosi dell’ex movimento «fieramente populista» a ennesima espressione dell’arcipelago ecologista, all’ombra della professorale figura di Conte, placare la sete di vendetta contro le malefatte dell’establishment e convincerli della bontà di futuri accordi elettorali con il Pd e con Leu di Roberto Speranza? Il compito, c’è da scommettere, non sarà dei più facili.

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