da: https://www.corriere.it/
- di Massimo Gaggi
Da
Silicon Valley al Congresso Usa, fino a Obama: tutti hanno fallito nel
regolamentare l’influenza delle Reti sociali sulla formazione della pubblica
opinione
La decisione di Donald Trump di intervenire
con un ordine esecutivo presidenziale nel delicatissimo campo dell’informazione
diffusa dalle reti sociali è criticabile da almeno tre punti di vista. In primo
luogo per le motivazioni: il presidente non nasconde di essersi mosso non per
correggere gli squilibri che si sono creati man mano che i pionieri della
Silicon Valley sono diventati giganti, ma per punire reti che teme possano
danneggiarlo (o non supportarlo adeguatamente) nella corsa verso la rielezione.
C’è poi il dato istituzionale: secondo molti giuristi tentare di alterare il quadro
definito dalle leggi del Congresso con atti amministrativi è una forzatura.
Infine, è tutta da verificare l’efficacia dello strumento messo in campo: non
sarebbe la prima volta che Trump emette un ordine esecutivo che non porta a
risultati concreti perché inapplicabile o perché viene subito contestato nei
tribunali.
Da
Obama a Trump
Quella sulla regolamentazione delle
piattaforme sociali si delinea come una battaglia senza eroi e, per adesso, con
molti sconfitti: sconfitti i giganti della Silicon Valley che si sono sempre
opposti a ogni forma di regolamentazione anche esercitando pressioni
lobbistiche
schiaccianti. Pretendevano di essere ambasciatori del bene assoluto
e di non avere responsabilità davanti alla politica e alla società. Ma
sconfitto è anche il Congresso che, quando il vento è cambiato e si sono create
le condizioni per intervenire, non ha saputo andare oltre i processi mediatici
e proposte di legge che sembravano più rappresaglie che progetti di riforma.
C’è, infine, la sconfitta postuma di Obama che per otto anni ha visto crescere
gli squilibri informativi e le diseguaglianze tecnologiche senza intervenire,
salvo sentenziare, poco prima di lasciare la Casa Bianca, che quella delle
diseguaglianze sarà la sfida decisiva del futuro.
Stile
e sostanza
Trump, come al solito, si muove con
prepotenza e con gli occhi fissi sulle urne del 3 novembre, ma va a toccare un
problema reale: l’irresponsabilità dei grandi tycoon della Silicon Valley che
pretendono di autoregolamentare la loro immensa influenza sulla formazione
della pubblica opinione soprattutto in campo politico. Aziende spesso prive di
cultura politica e istituzionale decise a massimizzare il profitto invadendo
anche il campo dell’editoria, forti di un’assoluta impunità. Solo in tempi recenti
questi gruppi si sono posti il problema di limitare la circolazione di post e
video falsi o offensivi. Scoprendo la difficoltà di costruire un sistema di
controllo dei contenuti capillare ed equilibrato. Ieri il New York Post ha
mostrato che il capo del «controllo dei fatti» di Twitter, Yoel Roth, ha una
storia di attivista politico di sinistra che ha espresso giudizi durissimi su
Trump. Cosa che ha consentito al presidente di sostenere che «sono editori di
parte, non entità neutrali: è come se una società telefonica censurasse le
vostre chiamate».
Twitter
vs Facebook
I leader di queste industrie, intanto, si
sono divisi su cosa è giusto fare, come dimostra la contrapposizione di ieri
tra il capo di Twitter, Jack Dorsey, e il fondatore di Facebook Mark
Zuckerberg: col primo che ha cercato di difendere la scelta di sottoporre a
fact checking un tweet nel quale il presidente giudicava fraudolenti i voti
inviati per posta (tesi falsa ma sostenibile, visti alcuni, limitati precedenti
di uso improprio del voto a distanza) mentre un altro post nel quale Trump
accusa un giornalista suo avversario di essere un assassino non è stato
cancellato. Un modo di procedere approssimativo che ha dato a Trump la
possibilità di accusare le piattaforme digitali di «censura selettiva» mentre
Zuckerberg ha sentenziato che i social media non possono pretendere di essere
gli arbitri della verità.
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