da: Il Fatto Quotidiano
Anche se ogni tanto litighiamo, sono un po’
amico di Massimo Giannini, specialmente da quando fu cacciato dalla Rai
dell’Innominabile e lo difesi. E ieri il suo editoriale su La Stampa mi ha
fatto male. Non per me, che non c’entro niente. Per lui. Dopo mezza vita passata a denunciare giustamente
i conflitti d’interessi politico-affaristico-editoriali di B., tentava di
negare il conflitto d’interessi politico-affaristico-editoriale dei suoi
editori Agnelli-Elkann. E, così,
senza volerlo, lo confermava.
Diversamente da B, la Real Casa torinese non ha mai avuto bisogno di entrare direttamente
in politica: fin dalla fondazione oltre un secolo fa, è sempre stata “governativa per definizione”, come
diceva il capostipite Giovanni Agnelli. Perché ha sempre avuto ai suoi piedi
quasi tutti i governi, convinti – anche in cambio di tangenti e buona stampa –
che “quel che va bene alla Fiat va bene all’Italia” (Gianni Agnelli). E infatti
anche La Stampa, salvo rare parentesi, è sempre stata governativa. Almeno fino
a due anni fa, quando andarono al governo due partiti – 5Stelle e Lega – troppo selvaggi per piacere ai soliti salotti,
anche se poi Salvini vi è stato subito cooptato. Intanto la Real Casa si comprava pezzo dopo pezzo pure
Repubblica, fino alla brutale cacciata di Verdelli e all’arrivo di
Molinari, sostituito a La Stampa da Giannini.
Così il
giornale più vicino al Pd è passato all’opposizione del governo che ha
riportato al potere il Pd, insieme al quotidiano governativo per definizione.
Il tutto mentre l’editore incassava da
Banca Intesa un assegno di 6,3 miliardi garantiti dallo Stato grazie al dl
Liquidità dell’orribile governo Conte. Il vicesegretario del Pd Orlando ha fatto
due più due, come chiunque osservi i movimenti dei grandi gruppi finanziari ed
editoriali: lorsignori, con i loro media al seguito, non ne hanno mai
abbastanza e ora vogliono rovesciare il
governo per spartirsi comodamente gli 80 miliardi delle due manovre anti-Covid
e quelli in arrivo dall’Ue.
Nessuno ha mai parlato di ”complotto” o “congiura”,
termini evocati da Giannini (che tira in ballo financo gli odiatori di Liliana
Segre e di Silvia Romano) e da quel furbacchione di Mieli per ridicolizzare un
tema serissimo: qui si tratta di interessi
economici, che sarebbero legittimi se non usassero i media per i propri
comodi. Conte, pur tutt’altro che ostile
alle imprese, è inviso all’establishment lobbistico-finanziario perché non è un premier à la carte (come lo
erano quasi tutti i predecessori). E per giunta non è stato scelto dai soliti
noti, ma nientemeno che dai barbari 5Stelle.
Infatti viene attaccato ogni giorno con
pretesti ridicoli (gli orari e la punteggiatura delle conferenze stampa) e fake
news (nulla a che vedere con la legittima critica) da tutti i grandi
quotidiani, fino all’altroieri sdraiati su governi infinitamente peggiori.
“Nessuno ci ha mai ordinato alcunché”, “i giornalisti non prendono ordini
dall’editore”, giura Giannini. Non ne dubitiamo: certe cose non c’è neppure bisogno di ordinarle. Si fanno col pilota automatico, conoscendo
i desiderata dell’editore. Che, quando è vero, ha il solo interesse di
vendere i giornali. Ma, quando è finto o “impuro”, usa la stampa per fare
affari anche tramite la politica. Vale per gli Elkann, Caltagirone, gli
Angelucci, Cairo e anche i De Benedetti.
Quando scoppiò lo scandalo della
soffiata dell’Innominabile all’Ingegnere sul dl Banche, Repubblica non scrisse
una riga: censura dell’editore o autocensura dei giornalisti? E le recenti
cronache da Coppa Cobram fantozziana dei due giornali della megaditta sul
prestito garantito a Fca erano frutto di ordini superiori o di spontanee
obbedienze inferiori? La Razza padrona descritta da Scalfari
prim’ancora di fondare Repubblica e poi di venderla a CdB, non è un’invenzione.
Giannini assicura che questa è “un’idea rozza” che “non esisteva neanche negli
anni 50, quando a Torino la Fiat e il Pci costruivano la trama delle relazioni
industriali del Paese”. Sarà, ma allora e anche molto dopo la Fiat (“la Feroce”) aveva “reparti confino”, schedava gli operai per
le loro idee e, quando ne moriva uno in fabbrica, La Stampa, sotto
dettatura della capufficiostampa Fiat, tota Rubiolo, scriveva che era “deceduto
in ambulanza nel trasporto in ospedale”.
Negli anni 90 era cambiato il mondo,
ma quando sul Giornale mi azzardai a
raccontare il processo sulle tangenti
Fiat, il condirettore Federico
Orlando fu convocato in corso Marconi da Agnelli e Romiti, che gli chiesero
di non farmi più scrivere. Montanelli pregò Orlando di non dirmelo
neppure e continuai a scrivere liberamente.
Un anno dopo, siccome perseveravo, il capufficio
stampa Fiat mi convocò per minacciare di stroncarmi la carriera. Me ne
fregai, ma solo perché non lavoravo per giornali Fiat. Ne Il Provinciale, Giorgio Bocca racconta un aneddoto su un dirigente
Fiat che rende bene l’idea: “Mi trovai in una villa del Monferrato in casa di
un dirigente che un po’ brillo abbracciava alle spalle la sua tota segretaria e
le diceva in piemontese: ‘Ninìn, lo senti l’acciaio?’. E lei brancicava nei
suoi pantaloni con una mano, senza girarsi…”. Ecco, oggi la sede legale è in Olanda. Ma l’acciaio è sempre lì dietro, in
Italia.
Nessun commento:
Posta un commento