da: https://www.internazionale.it/
- di Roberta Carlini
Prima è caduto il muro del patto di
stabilità. Poi è arrivata la mossa della Banca centrale per tenere a bada gli
spread, influenzati dall’aumento del costo dei debiti pubblici nazionali.
Parallelamente, altri flussi di denaro si sono aperti: sia per chi ha perso il
lavoro (il Sure), sia per le piccole e medie imprese (attraverso la Banca
europea degli investimenti). E poi si è sfrondato il vecchio Mes dalle sue
condizioni-capestro (Pandemic crisis support). Tutti strumenti con i quali, di
fronte all’emergenza covid-19, l’Unione europea ha superato i limiti delle
politiche dell’austerità, consentendo maggior debito pubblico e privato.
Con la proposta della Commissione
presentata dalla presidente Ursula von der Leyen – intitolata “Next generation
Eu” – si fa un passo in più, prevedendo 750 miliardi di euro per sostenere la
ripresa economica dopo la pandemia: cinquecento miliardi saranno trasferimenti
e 250 prestiti aggiuntivi ai programmi citati. I cinquecento miliardi di quello
che prima era chiamato “recovery fund” non sono prestiti che i singoli paesi
dovranno rimborsare, ma trasferimenti, sussidi: stavolta “parliamo di soldi
veri”, ha scritto Martin Sandbu sul Financial Times.
I “soldi veri” l’Unione li raccoglierà sul
mercato, dove potrà contrarre debiti a condizioni più favorevoli dei singoli
stati. E sarà la stessa Unione a ripagarli. Il “momento dell’Europa” – altro
titolo usato nei documenti della Commissione – non è ancora un “momento
Hamilton”,
ossia il passaggio al bilancio federale. Un passaggio del genere
prevederebbe un potere di spesa molto più consistente e l’imposizione fiscale
da parte di Bruxelles: nella proposta si parla della possibilità di introdurre
tasse comunitarie (sulle emissioni di gas serra, sulla plastica e sui giganti
del web), ma solo per pagare gli interessi sul debito comunitario.
Dunque non siamo ancora al federalismo
fiscale europeo. Ma di fatto questa è la prima manovra economica dell’Unione
europea, che consiste in un pacchetto di aiuti comune. Se sarà approvato nella
forma proposta dalla Commissione – cosa niente affatto scontata, dato che il
percorso politico si preannuncia irto di ostacoli – porterà a un intervento
pari al 2 per cento del prodotto interno lordo dell’intera Unione europea,
commisurato alle esigenze di ciascun paese, dunque all’impatto che il covid-19
ha avuto nei singoli casi. L’Italia sarebbe la principale beneficiaria, con 82
miliardi, pari al 4,5 per cento del suo pil. A questi dovrebbero aggiungersi
circa 90 miliardi di nuovi prestiti, per un totale di 172 miliardi. Per fare un
paragone: fino a pochi mesi il governo italiano trattava con Bruxelles su
scostamenti di bilancio che riguardavano pochi decimali di pil.
Cosa
chiede l’Europa
Ma cosa potranno e dovranno fare i paesi
con questi trasferimenti? “Rilanciare l’economia non vuol dire tornare allo
status quo che c’era prima della crisi, ma lanciarsi in avanti”, si legge nel
documento della Commissione europea. Le parole chiave sono: verde e digitale.
Il green deal europeo, rimasto finora uno slogan, adesso trova finanziamenti.
Tra i capitoli d’investimento elencati ci sono: infrastrutture ed edifici (in
questo caso, per lo più ristrutturazioni che migliorino l’efficienza
energetica); transizione alle fonti rinnovabili di energia; trasporti e
logistica; economia circolare.
Il piano digitale invece prevede
investimenti sia per le reti sia per la connettività (5g), ma anche un ruolo più
centrale dell’Europa di fronte alle multinazionali della tecnologia e di
internet. Chiude il quadro la raccomandazione di “una crescita giusta e
inclusiva per tutti”, che preveda strumenti di protezione sociale sia per chi è
rimasto indietro durante la crisi sanitaria sia per i posti di lavoro persi a
causa della transizione a economie che puntano sull’ecologia e sul digitale.
Dunque, sia pure sotto titoli enfatici e
con una certa dose di genericità, il piano della Commissione europea dà qualche
indicazione. Dividendo nettamente, come per i lockdown, la fase uno dalla fase
due: nel breve termine si trattava di curare e tamponare le ferite dirette e
indirette della pandemia (dunque spese sanitarie e ammortizzatori sociali),
adesso bisogna scegliere dove spendere. L’Italia, che sarà la principale
beneficiaria dei fondi se le resistenze di paesi come Austria e Danimarca
saranno superate, ha un suo piano?
Cosa
ha fatto e vuole fare l’Italia
Quello che ha fatto finora non va nella
direzione auspicata dalla Commissione europea. Il decreto “cura Italia”,
sull’onda dell’emergenza, ha usato e integrato gli strumenti di assistenza che
esistevano già prima. Tuttavia misure più semplici e universali potrebbero
essere più efficaci, viste le difficoltà incontrate nell’erogare le varie casse
integrazioni e sostegni.
Il governo spagnolo sta introducendo una
forma di reddito di base, e la stessa Commissione suggerisce un reddito minimo
equo e misure trasparenti per aiutare i lavoratori più vulnerabili, in
particolare le donne. In Italia il decreto rilancio, con un intervento di 55,3
miliardi per il 2020, oltre alle misure di sostegno contiene anche aiuti per la
ripresa economica, ma il principale provvedimento fiscale è un taglio all’Irap
indifferenziato, che va sia alle aziende colpite dal lockdown sia a tutte le
altre.
L’ufficio parlamentare di bilancio ha
calcolato che i settori chiusi per la pandemia sono meno di un quinto dei
beneficiari dello sconto Irap per il 2020. In altre parole, lo stato italiano
ha previsto un sostegno economico per tutte le aziende, anche quelle non
direttamente colpite dall’emergenza di questi mesi (e perfino quelle che nel
frattempo hanno guadagnato, come i supermercati), tagliando un’imposta che è
particolarmente odiata dal mondo produttivo, ma il cui gettito sarebbe
destinato a finanziare la sanità pubblica.
Quanto al futuro, finora non c’è un piano
ma due annunci. Il primo viene dal ministro dell’economia e delle finanze
Roberto Gualtieri, che ha dichiarato a La Repubblica di voler usare i fondi
europei per riformare l’Irpef a beneficio dei redditi medio. Gualtieri propone
di accorpare le aliquote centrali per un taglio fiscale complessivo di circa
dieci miliardi. Una manovra che aiuterebbe tanti – e garantirebbe consenso
elettorale al governo – ma che non va nella direzione di scegliere i settori di
sviluppo e che difficilmente potrebbe essere finanziata con i fondi del “Next
generation Eu”. Il secondo annuncio riguarda l’atteso piano della task force
guidata da Vittorio Colao. Le proposte arriveranno a giorni; si parla di cento
progetti all’insegna di “tecnologia e digitalizzazione”, con investimenti nelle
grandi reti digitali e nell’ambiente.
Cosa
si può fare
Digitale e ambiente sono categorie
generiche, e dentro ci può stare di tutto. Ma stavolta i paletti della
Commissione europea possono aiutare. Intanto perché favoriscono gli
investimenti piuttosto che la spesa corrente (gli investimenti pubblici in
Italia sono drammaticamente calati negli ultimi vent’anni). E poi perché
indicano chiaramente la strada di una transizione verso un’economia più
sostenibile. Questo vuol dire che non bisognerebbe dare aiuti pubblici a
settori industriali inquinanti: meglio sostenere direttamente i lavoratori che
perdono il posto e garantire la loro formazione per altre occupazioni. Vuol
dire anche, però, che quei fondi sono utilizzabili per la riconversione
industriale (si pensi all’Ilva). E per ripensare e ristrutturare i settori più
colpiti dalla pandemia (il turismo in primo luogo), aumentandone l’efficienza e
la competitività, ma anche la trasparenza e la legalità.
Riconvertire il patrimonio immobiliare
pubblico e privato, fornendo le risorse alla “manutenzione” delle città nelle
quali abbiamo scoperto l’importanza delle piazze, dei parchi, dei luoghi e dei
beni pubblici. Puntare sulle grandi dimenticate dell’emergenza, scuola e
università.
Anche a Bruxelles pare tramontata la
vecchia idea per cui basta ridurre le tasse a aziende e famiglie e poi tutto si
aggiusta da sé. In altre parole: bisogna scegliere. Dal Forum disuguaglianze e
diversità, che ha seguito le conseguenze della crisi sulla società italiana,
Fabrizio Barca propone quattro grandi aree in cui convogliare le nuove risorse:
scuola (ripensando sia l’offerta sia le infrastrutture), salute, mobilità e
casa. Tutte queste aree possono essere ripensate, dice Barca anticipando le
linee del piano che il suo forum presenterà a breve, con un’alleanza tra il
governo e i sindaci. Un appello proposto dalla rete Sbilanciamoci elenca dieci
punti di intervento, anche in questo caso mettendo al centro la transizione
ambientale e l’equità sociale, e con un forte accento sul ruolo dell’intervento
pubblico.
L’impatto della crisi è e sarà molto duro,
ma le risorse a disposizione per contrastarlo sono notevoli. Il pericolo è che
si disperdano in rivoli più o meno grandi, adatti a sostenere il consenso di
una coalizione di governo altrimenti debole, ma senza una strategia economica
per risolvere problemi del passato e aprire capitoli nuovi per il futuro.
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