Anziani,
malati, depressi, persone sole, costrette all'immobilità: la loro esistenza è
tutta una quarantena e adesso noi lo sappiamo, perché ci siamo passati. E non
dovremmo dimenticarlo una volta finita l'emergenza.
Ecco noi. Disperati e abbruttiti, avviliti
e affamati noi. Affamati di vita, quella che abbiamo lasciato indietro, quella
che abbiamo perduto e non ritroveremo. Noi non saremo migliori dopo l’incubo,
siamo troppo pieni di rabbia e di paura. Noi non ci saremo alla chiamata alle
armi della bontà, della catarsi e della palingenesi, noi saremo gli stessi,
solo un po’ più vili. Meschini ed impazziti. Memori delle notti bianche, del
tempo che era finito, del sospetto di chiunque.
Prigionieri di noi, a spiarci dietro i
vetri, pronti alla delazione di chi sgarrava. Non potremo credere a cosa siamo
stati eppure ce lo porteremo dentro. Per sempre. Ecco noi, reduci di una guerra
che nessuno ha dichiarato, impotenti in trincea contro un nemico che
respiravamo e s’infilava nel sangue e vedevamo i nostri cari morire e non
potevamo tenergli la mano e non potevamo piangerli al cimitero. No. Noi non ci
saremo all’appuntamento con la terra promessa di una nuova umanità.
Noi che adesso sappiamo. Noi, immuni alle
sirene, al coprifuoco, ai bombardamenti, agli invasori, alla resistenza, noi
figli della pace, della rinascita di libertà, noi adesso sappiamo. Noi
ricorderemo. E se è vero che non saremo migliori, che non cambieremo il nostro
mondo e quelli che siamo, se è vero che dovremo ripartire anche noi dalla nostra
miseria per costruirci sopra la speranza, però una cosa la possiamo fare. Una
cosa, la possiamo fare. Perché adesso sappiamo.
QUELLA
SOLITUDINE CHE NON LASCIA MAI
Sappiamo come si sentono quei vecchi
reclusi nell’età, farfalle dalle ali bianche troppo esauste per volare, via,
via, di nuovo contro il sole. Lungodegenti li chiamano, per non dire che
aspettano la morte in corsie d’ospedale e nessuno li va a trovare, osservano le
ultime stagioni passare dietro al vetro, rottami a scadenza e lo sanno. Non hanno
voglia di parlare, solo di aspettaretra
una flebo e un catetere e quei figli che neppure oggi verranno. E stanno
peggio degli altri, vecchi e basta, orfani di ottant’anni, troppo infermi per
uscire ancora, troppo sani per un reparto bianco: anche loro attendono, si
trascinano nelle stanze intontiti dal nulla, dal ronzio della tivù, da liturgie
di farmaci, da rosari di noia. E il telefono che non suona, non li cerca mai. E
le ombre dei ricordi addosso ai muri, e la notte un po’ di droga per
tramortirsi e svenire.
E i malati di qualunque età, che scontano
l’incidente, la sfiga, il destino. Piano piano le visite si diradano e
rimangono soli. Implodono. Si accartocciano. Si accucciano come cani nella
tana, non vogliono uscire più, non vogliono guarire perchè non ne hanno
ragione. Soffrono della madre di tutte le malattie, la solitudine che
partorisce ogni morbo, la depressione che fa vedere nero anche il sole e non ti
lascia, non ti lascia. E i disabili, di corpo, di mente, di tutto, a scontare
la colpa dell’immobilità, di uno sguardo di lago quando piove, di una forma
cubista, che non sai cosa dirgli, ti mettono a disagio, ti compromettono di
pensieri pericolosi, di bilanci. Di imbarazzo.
E ancora i sani per niente, semplicemente,
inesorabilmente. Rotolati fuori dal mondo, in compagnia dei loro passi, perché
difficili, strani, brutti o derelitti. Li sfiori senza vederli, spettri di
città, nessuno può arginare la loro angoscia finché si convincono che la loro
dannazione è meritata e non cercano più, se un contatto li incrocia si
ritraggono, non vogliono soffrire di più, non vogliono sperare, timidi come
fiori che si schiudono a marzo, per disilludersi ancora.
NESSUN
EROSIMO, SERVE SOLO TORNARE UMANI
Infinito è il lockdown di queste anime a
rendere. Questi sassi in fondo a un fiume. La loro vita è tutta una quarantena
e adesso noi lo sappiamo. Noi sappiamo come stanno, perché ci siamo passati. E
non possiamo più essere uguali a prima e non abbiamo più alibi per cavarcela
con una preghiera. Noi adesso vediamo che i loro occhi sono stati i nostri.
Occhi di animali feriti, terrorizzati, in canile. Umiliati animali, che
volevamo morire. Anche loro vogliono morire. Lo vogliono ogni giorno della
vita, ogni mattina che riaprono gli occhi, ogni sera quando li spengono. Ma non
muoiono, restano in compagnia della loro solitudine, ubriachi di silenzio,
ebbri di sonno e di stanchezza, di una voglia di esistere che si è uccisa. Noi
adesso sappiamo.
Conosciamo il loro indirizzo, sta lì, a un
bacio di distanza, a uno sparo di distanza. Non chiedono rifugio ma lo urlano
col silenzio e il rifugio è un abbraccio, una visita, una telefonata, un
regalino. Una sorpresa. Costerà, quel rientrare nell’orrore, costerà
riconquistarci l’incubo che eravamo, che essi sono. Costerà sfondare il muro
del loro ritegno. Ma se davvero c’è una cosa in cui possiamo cambiare – se
realmente possiamo essere migliori, quando saremo restituiti alla nostra vita –
sta nell‘umanità del coraggio e nel coraggio dell’umanità. Nessun eroismo, solo
tornare umani, davvero umani. Diventarlo se mai. Sono là. Troppo vicini per
scamparli. Parlo degli sbagliati, di quelli rimasti indietro, che non piacciono
a nessuno, coi laghi dentro agli occhi, che ti guardano e ti raggelano, ti
fanno venire voglia di scappare via, via, via dal tuo lockdown ma tu se hai
imparato qualcosa, se sei umano rimani, caschi dentro quei laghi, ci vedi il
tuo profilo e non hai più paura.
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