da: Il Fatto Quotidiano - di Alessandro Robecchi
Le retoriche del “dopo” fanno bene al
cuore. “Dopo” torneremo ad abbracciarci, a tornare là fuori, “dopo” riavremo le
nostre vite sequestrate, “dopo” torneremo al gusto del caffè del bar, delle
chiacchiere a distanza ravvicinata, del contatto fisico, delle strade piene. È
giusto che sia così, giusto che ci sia un orizzonte, un tendere al futuro, un
desiderio forte di passare la nottata, domani è un altro giorno. Dai, coraggio,
avanti. Dopo, dopo, dopo.
Ma siamo
sicuri che il “dopo” – quando arriverà – debba essere uguale al “prima”?
Che questa piaga biblica non ci stia disegnando, con precisione quasi
millimetrica, storture, furbizie, ingiustizie strutturali, diseguaglianze
sociali accettate come naturali e immutabili? La catastrofe amplifica, precisa
i contorni, rende tutto più visibile, cristallino. A metterle in fila, le
inadeguatezze, le furbizie, i calcoli cinici, c’è da riempirci un volume, si
oscilla tra un senso di comunità in pericolo (ora che la comunità è chiusa in
casa) e la voglia di ghigliottina, di segnarsi i nomi, i comportamenti, le
dichiarazioni, a futura memoria. Per “dopo”.
Così, con lo stesso inquieto pendolarismo
che ci fa fare migliaia di volte il tragitto camera-cucina, presi dall’horror
vacui della giornata che ci si apre davanti, mettiamo confusamente in fila la
lista delle ingiustizie. Il tampone agli asintomatici che è ormai uno status
symbol come la Porsche in garage (sì ai calciatori, sì ai vip, no ai medici in
trincea, possibile?).
Le speculazioni politiche di bassa lega (Lega), come il
vergognoso Salvini travestito da sanitario, gli industriali che resistono alle chiusure
ma in fabbrica non ci vanno, le miserabili riflessioni ultraliberiste
(memorabile un articolo su Il Foglio) che ci spiegavano perché è giusto che le
mascherine seguano la “naturale” dinamica dei prezzi, perché il mercato sistema
tutto, che vergogna. E anche i conti finalmente chiariti su chi, come, quando,
in che misura ha martoriato la Sanità pubblica in questi anni, nomi e cognomi.
Chi lo diceva prima, al momento dei tagli, era dipinto come un nemico, un
sovversivo (le mille varianti mettetele voi, comunista, gufo, disfattista,
costruttore di debito pubblico…), ora troviamo quelle cifre – i tagli di
Silvio, di Monti, di Renzi – messe in fila con dovizia di dettagli.
Scappati i buoi si guarda con desolazione
alle porte della stalla, e lo fanno anche giornali, e media, e forze politiche
che prima non facevano un fiato, che a ogni sforbiciata esultavano per la
coerenza di bilancio: ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati, e giù
ticket, e riduzioni di prestazioni, e limiti agli esami, e meno posti letto, e
meno terapie intensive, e meno ospedali locali, e numeri chiusi a medicina, che
qui vogliono fare tutti il dottore, signora mia.
Saranno anche categorie antiche,
novecentesche, ma siccome ci scopriamo disarmati a non averne di migliori, ecco
che tocca constatare: anche il virus è di classe, e lo si vede ogni giorno nei
piccoli dettagli dell’infamia corrente, quasi un campionario. Le case piccole
in cui convivere, i soldi che mancano perché arrivano dal cottimo, il poderoso
esercito dei lavoratori in nero (moltitudine) che non avranno ammortizzatori, i
lavoratori spaventati sia dalla costrizione a lavorare sia dal fermarsi.
“Dopo”, nell’ubriacatura dell’essere di
nuovo vivi, dovremo ricordarci che quel “prima” che oggi ci manca non andava
bene, era fragile e ingiusto, era troppo diseguale, schiacciava i deboli e
premiava i forti. Nel “dopo” ci dovremo mettere anche tutto questo, un
ridisegnare complessivo del sistema, delle protezioni sociali, e sarà
importante quanto lo è la voglia di tornare là fuori, di riabbracciarci, di
bere il caffè al bar. Il “dopo” non arriverà soltanto, lo si dovrà costruire
con le nostre mani finalmente senza guanti, dopo.
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