da: Il Fatto Quotidiano - di Laura Cappon
“Noi,
gli altri Zaki da Milano a Berlino: così Al Sisi ci spia”
Dissidenti
nel mirino Ahmed, Safwan & C.: “Ci fotografano ed entrano nei nostri
smartphone”. Il nodo del rinnovo passaporti
C’e sempre qualcuno alle nostre
manifestazioni, a Milano come a Roma. Anche l’ultima volta alla presentazione
del libro dei genitori di Giulio Regeni ho notato che c’erano persone che ci
osservavano. Questi però non li conoscevo.
Facce nuove”. Ahmed, il nome è di fantasia,
è un ragazzo egiziano, vive da diversi anni nel capoluogo meneghino e fa parte
di uno dei movimenti protagonisti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. Ha
scelto di parlare in anonimato perché torna spesso in Egitto, dove vive ancora
la sua famiglia. Proprio come Patrick Zaki, il ricercatore egiziano arrestato
lo scorso 7 febbraio al Cairo mentre rientrava da Bologna, città dove stava
frequentando un master in studi di genere.
Quello che descrive Ahmed, confermato anche
da altri attivisti e da report stilati da organizzazioni non governative, è un
modus operandi sistematico attraverso il quale i servizi segreti egiziani
spiano i loro connazionali all’estero, in particolare chi ha militato o milita
in organizzazioni politiche o sindacali opposte al regime, dai laici di piazza
Tahrir ai Fratelli Musulmani.
Sembra un romanzo di spionaggio, ma non lo
è. Tra gli ex pat egiziani l’attività delle talpe è nota: a Milano li chiamano “quelli
del consolato”, anche se non ci sono molti dubbi sulla loro reale appartenenza,
visto che gli uomini operativi in Italia sono stati avvicendati proprio in
coincidenza con il cambio della guardia dei Servizi del Cairo deciso da
al-Sisi. La loro strategia è semplice: controllare e intimidire i giovani
egiziani che vivono all’estero e hanno lasciato il Paese negli ultimi 6 anni.
Questi ragazzi spesso hanno solo un passaporto, quello egiziano, che va
rinnovato e per questo motivo presto o tardi sono costretti a tornare a casa
incrociando le dita
e sperando di non essere tirati in ballo da
qualche inchiesta, proprio come successo a Zaki.
Si subisce, dunque, ma non si denuncia
perché prima dell’impegno politico ci sono la propria incolumità e quella
della propria famiglia. “Quelli del
consolato”ricorda Ahmed “ci seguivano già nel 2016.
Quell’anno, durante una fiaccolata in
piazza della Scala, poco dopo la scomparsa di Giulio Regeni, addirittura si
avvicinarono per presentarsi”. E non è nemmeno un fatto limitato all’attività
degli expat, come denunciato anche dal legale della famiglia Regeni: “Gli
egiziani ci spiano anche qui in Italia”, ha detto l'avvocato Alessandra
Ballerini.
Ma il comportamento dei Servizi egiziani
sembra essere lo stesso ovunque ci siano grandi comunità di dissidenti.
“Mio marito è stato arrestato in Turchia
perché il suo visto era scaduto e il suo nome compariva in una black list di
presunti terroristi stilata da alcuni Paesi arabi”, racconta Ghada Naguib.
L’abbiamo raggiunta al telefono nella sua nuova casa a Istanbul, dove è fuggita
nel 2015. Suo marito è Hismah Abdallah, oggi presentatore della tv egiziana al-Sharq
con base nella città turca. Istanbul è una delle città dove molti attivisti
politici egiziani, per la maggior parte vicini ai Fratelli Musulmani, hanno
trovato rifugio dopo il colpo di stato del 2013.
Lo è anche Berlino, qui con una
composizione più laica, dove Safwan Mohammed, giornalista e attivista, è
scappato nel 2017. “Le nostre attività sono costantemente monitorate, lo
sappiamo”, racconta nel corso di una conversazione su una app criptata. “Ogni
volta che c’è un’iniziativa, ogni volta che ci vediamo, vengono a scattare le
foto, li vediamo”.
Ma il controllo fisico e i pedinamenti non
sono l’unico strumento che il regime di al-Sisi utilizza per raccogliere informazioni
fuori dal Paese. Ci sono anche gli attacchi informatici: “Io ne ho subiti
numerosi dal 2016 a oggi – racconta Ahmed –. La prima volta il mio telefono non
funzionava più, si bloccava, era lento e non riconosceva più il carica
batterie, allora ho mandato la segnalazione ad Amnesty Tech e mi hanno
confermato che ero stato vittima di un attacco”.
Nel 2019 il fenomeno si è intensificato con
un’altra decina di attacchi, la maggior parte dei quali di tipologia phishing: attraverso
l’invio di email apparentemente riconducibili a banche, uffici postali o
piattaforme di pagamento: si estorcono alle vittime password, codici di
accesso, numeri del conto corrente o dati della carta di credito.
Un’indagine condotta da Amnesty
International conferma il racconto di Ahmed. L’organizzazione per i diritti umani
ha evidenziato che dall’inizio del 2019, mentre la repressione si intensificava
anche in Egitto, decine di difensori dei diritti umani sono stati oggetto di
attacchi phishing.
Amnesty ha scoperto anche un’altra
coincidenza inquietante: l’elenco delle vittime del 2019 coincide in larga parte
con quello di coloro che avevano subito attacchi col Nile Phish, scoperti nel
2017 da Citizen Labe dall’Iniziativa egiziana per i diritti della persona.
Quasi tutte le vittime erano indagate per
aver ricevuto fondi dall’estero, accusa che viene spesso mossa agli oppositori
politici. “Esaminando l’identità degli obiettivi, le tempistiche, il loro
apparente coordinamento e le notifiche inviate da Google, concludiamo che
questi attacchi sono stati probabilmente eseguiti da o per conto delle autorità
egiziane”, spiega Ramy Raoof, ricercatore egiziano in sicurezza digitale, che
ha stilato il report di Amnesty International.
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