“magari possiamo capire meglio perché non c’è regola, blocco, minaccia dissuasiva che possa fermare qualcuno che teme per la sua vita e quella della sua famiglia…”
Ora
che anche noi abbiamo svuotato i supermercati, litigato in farmacia per una
mascherina, magari possiamo capire meglio perché non c’è regola, blocco,
minaccia dissuasiva che possa fermare qualcuno che teme per la sua vita e
quella della sua famiglia
L’immagine più singolare sul nuovo esodo di profughi verso l’Europa l’ha
pubblicata l’home page di DW, l’emittente pubblica tedesca in trenta lingue: è
una fotografia scattata sulle colline al confine tra Turchia e Grecia, mostra un adolescente con un cane in braccio,
nella infinita coda di migranti che camminano per attraversare la
frontiera. Il ragazzino – o la ragazzina, non si capisce bene – è imbacuccato
con sciarpa e cappello e porta pure una
mascherina di carta, chissà perché. Magari si difende da contagi diffusi nei campi da cui proviene,
polmonite o Tbc, o forse anche ai rifugiati è arrivata notizia del virus
che preoccupa tutti noi in questi giorni. In ogni caso è uno scatto che mette
insieme le paure dell’Occidente e quelle dell’Oriente, misura la loro abissale
differenza e al tempo stesso rivela una connessione, una parentela che siamo
obbligati a considerare.
Ora che sappiamo qual è lo spavento di vedere i nostri figli, i nostri genitori
e noi stessi abbandonati al pericolo di una sorte potenzialmente fatale,
forse dovremmo
riflettere sulle molte
sciocchezze che abbiamo detto in questi anni a proposito delle masse enormi in fuga dalle guerre o da
regimi pericolosi. Ora che anche noi abbiamo svuotato i supermercati, litigato in farmacia per un presidio
protettivo, comprato a borsa nera un flacone di disinfettante, magari possiamo capire meglio perché non
c’è regola, blocco, minaccia dissuasiva che possa fermare qualcuno che teme per
la sua vita e quella della sua famiglia.
Nel Vecchio
Continente la memoria delle grandi emergenze collettive è sbiadita: le guerre
europee sono un ricordo solo dei più anziani, insieme alle esperienze che
le accompagnavano, la fame, la malattia senza cura né farmaci, il sentirsi in
balia della prepotenza altrui. Forse anche per questo la nostra coscienza collettiva si è adattata all’idea di affidare alla soluzione turca o libica tre
milioni e mezzo di sfollati dal Medio Oriente, disinteressandoci dei loro
destini e delle loro insopportabili condizioni di vita. Solo trenta o
quarant’anni fa questa idea ci avrebbe turbato e avrebbe messo in discussione i
capisaldi culturali del nostro sentirci occidentali, europei, civili: ci
sentimmo a disagio persino per disastri umanitari lontanissimi da noi, il
Bangladesh o il Biafra, e di sicuro avremmo giudicato un dovere interessarci di
disperazioni assai più vicine e visibili, che ci chiamavano direttamente in
causa.
In questi tempi nuovi, abbiamo addormentato le nostre coscienze affidandoci a una
narrazione – non sono profughi, sono
clandestini; non fuggono, sono invasori – fondata sul rifiuto di un dato di
realtà elementare: la paura è un sentimento incontrollabile e invincibile,
muove le masse, determina azioni estreme, se ne frega delle regole, dovrebbe
suscitare empatia e non disprezzo o addirittura odio.
Ora,
forse, possiamo capire meglio. Anche noi abbiamo avuto,
e abbiamo ogni giorno, il nostro piccolo assaggio di paura. Siamo anche noi in
condizione di valutare cosa significa accendere la tv sperando che il nostro
paese o il nostro quartiere sia rimasto immune dal virus. Possiamo più facilmente immaginare cosa saremmo disposti a fare se nostro padre malato non
trovasse un posto in ospedale, se le scuole o i luoghi di lavoro restassero
chiusi a oltranza, se non trovassimo più in farmacia una medicina
essenziale per nostro figlio. È una
degustazione minima, un saggio omeopatico, ma sarà opportuno ricordarne il sapore quando daremo il nostro giudizio
sulle paure degli altri, sulle disperazioni degli altri.
Nessun commento:
Posta un commento