martedì 31 marzo 2020

Coronavirus: uno studio di Harvard boccia l’approccio lombardo. Veneto (ed Emilia) hanno fatto meglio, ma non si impara dagli errori


da: https://it.businessinsider.com/ - di Andrea Sparaciari

Perché il Veneto registra solo 8.358 casi totali di contagio da Corona virus e la Lombardia supera i 41.000? E ancora, perché in Emilia-Romagna il totale degli ospedalizzati si ferma a 4.102 persone, mentre in Lombardia sono 12.941? Ma, soprattutto, perché nella Lombardia di Attilio Fontana si sono registrati 6.360 deceduti, contro i soli 392 del Veneto e i 1.443 di Emilia-Romagna?

Una risposta univoca non c’è, tuttavia è chiaro che la più ricca ed europea tra le regioni italiane ha completamente sbagliato approccio alla pandemia.

E, ancora più grave, anche alla luce delle fredde evidenze matematiche, fa fatica ad abbandonare un approccio incentrato sull’ospedalizzazione di massa (sono 12.941 gli ospedalizzati lombardi, contro i 4.102 dell’Emilia e i 1.941 del Veneto), a favore di uno basato su assistenza domiciliare (come ha fatto Bonaccini) o sui tamponi a tappeto tra la popolazione (la scelta di Zaia).

Una dura verità che è arrivata anche sulla prestigiosissima Harvard Business Review, che ha appena pubblicato lo studio “Lessons from Italy’s Response to Coronavirus”, a firma Gary P. Pisano, Raffaella Sadun e Michele Zanini. Un prezioso “bigino” – «nato non dalla volontà di fare i maestrini di Harvard, ma da una profonda disperazione: siamo qui in America e abbiamo famiglie in Italia che vivono realtà diversa», spiega Raffaella Sadun, Professor of Business Administration in the Strategy Unit alla Harvard Business School, raggiunta a Boston da Business Insider Italia -, dove trovano posto una per una le ragioni che hanno portato l’Italia in vetta alla classifica di contagiati e deceduti da Covid-19.
Una sorta di compendio delle insidie da evitare quando ci si trova ad affrontare una epidemia, indirizzato sia a quegli stati dove lo tsunami pandemico è in ritardo rispetto al nostro Paese, sia alle autorità italiane «che possono correggere il tiro».
Secondo i tre docenti di Harvard, l’Italia è divenuta un caso di studio perché è stato il primo Paese occidentale a doversi confrontare con una pandemia, un’evenienza del tutto imprevista, il che ha inevitabilmente portato a errori e a sottostimare il pericolo.
Ma lo è diventata anche perché “il sistema sanitario italiano è altamente decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche” e ognuna, vista con l’occhio dello studioso, rappresenta un esperimento. I cui risultati devono essere il motore del cambiamento: si deve «capitalizzare le conoscenze acquisite: capire cioè presto cosa funziona e interrompere subito ciò che non funziona. E questo secondo passo che manca in Italia», spiega Sadun.
In particolare, lo studio ha effettuato una comparazione tra le attività di contrasto alla malattia intraprese da Lombardia e Veneto, due regioni con profili socioeconomici simili – sebbene la Lombardia abbia il doppio degli abitanti del Veneto, 10,5 milioni contro 4,9 milioni -, che però hanno abbracciato strade divergenti. La diversità dei dati (e delle vittime), secondo lo studio, è riconducibile al fatto che la regione di Zaia ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus, puntando:
- su test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci (i tamponi effettuati sono stati 94.784);
- tracciamento dei potenziali positivi;
- sul fatto che se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti i presenti nella casa di quel paziente, nonché i vicini;
- che se i kit di test non erano disponibili, le persone si sono messe in auto-quarantena volontaria.

Oltre a ciò, ha optato per un sistema basato su diagnosi in loco e assistenza domiciliare. Così come ha fatto l’Emilia-Romagna, dove la gestione del paziente positivo avviene principalmente al di fuori delle strutture ospedaliere.

Una buona pratica, tanto che lo studio afferma: “è necessario passare con urgenza da modelli di assistenza centrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offra soluzioni per l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare)”.

Il tutto, senza dimenticare poi la tutela degli operatori sanitari, ai quali Veneto ed Emilia hanno assicurato da subito Sistemi di tutela individuali (mascherine, camici, guanti) e tamponi per controllare l’eventuale contagio. Un altro aspetto dirimente, rispetto alla Lombardia, dove a tutt’oggi infermieri, medici e medici di base si ritrovano privi degli strumenti minimi di difesa. Tanto che gli ospedali si sono trasformati in centri di diffusione del virus, come tristemente scoperto nella Bergamasca e nel Bresciano.

La Lombardia invece (“seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale”, sottolinea lo studio), ha fatto il contrario:
- ha limitato il numero di test (a parità di popolazione, ne ha fatti circa la metà del Veneto, fermandosi a 107.398);
- si è concentrata principalmente sui casi sintomatici;
- ha effettuato “investimenti limitati in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare, monitoraggio e protezione degli operatori sanitari”.

Il risultato è che la Lombardia è prima per numero di contagiati e decessi, mentre il Veneto tiene.

“Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una potente opportunità di apprendimento”, si legge. “I risultati emersi dal Veneto avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere velocemente le politiche regionali e centrali. Tuttavia, è solo negli ultimi giorni, un mese intero dopo lo scoppio dell’epidemia, che la Lombardia e altre regioni ha iniziato a prendere provvedimenti per seguire alcuni degli aspetti dell’approccio veneto”.

Invece è fondamentale capire cosa non ha funzionato.

E in questo la Lombardia può essere molto utile: “Mentre i successi emergono facilmente grazie ai leader desiderosi di pubblicizzare i propri progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o, quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto che sistemici”, sottolinea lo studio.

Per esempio: il premier Conte aveva accusato l’ospedale di Codogno (Lodi) di aver gestito in maniera poco prudente il primo paziente Covid. “Tuttavia, un mese dopo è diventato chiaro che quell’episodio era emblematico di un problema molto più profondo: ovvero che gli ospedali tradizionalmente organizzati per fornire cure incentrate sui pazienti sono mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia”.

«In questo momento trovare capi espiatori è sbagliato», commenta Sadun, «non esiste una responsabilità unica. Le decisioni iniziali sono difficili. Quello che vediamo, però, è l’incapacità di aggiornare decisioni che si sono rivelate sbagliate… Non si stiano abbracciando i dovuti cambiamenti nella politica sanitaria e nel modo in cui stiamo affrontando questo contagio, per paura di dover affrontare un costo politico. In realtà, questo non sta succedendo solo in Italia, accade anche in altri Paesi. Ma bisogna farlo e anche presto, perché gli italiani stanno soffrendo», conclude la professoressa.

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