da: https://it.businessinsider.com/ - di Andrea Sparaciari
Perché il Veneto registra solo 8.358 casi totali di contagio da Corona virus
e la Lombardia supera i 41.000? E
ancora, perché in Emilia-Romagna il
totale degli ospedalizzati si ferma a 4.102 persone, mentre in Lombardia
sono 12.941? Ma, soprattutto, perché nella Lombardia di Attilio Fontana si sono
registrati 6.360 deceduti, contro i soli 392 del Veneto e i 1.443 di
Emilia-Romagna?
Una risposta univoca non c’è, tuttavia è
chiaro che la più ricca ed europea tra le regioni italiane ha completamente
sbagliato approccio alla pandemia.
E, ancora più grave, anche alla luce delle
fredde evidenze matematiche, fa fatica ad abbandonare un approccio incentrato
sull’ospedalizzazione di massa (sono 12.941 gli ospedalizzati lombardi, contro
i 4.102 dell’Emilia e i 1.941 del Veneto), a favore di uno basato su assistenza
domiciliare (come ha fatto Bonaccini) o sui tamponi a tappeto tra la
popolazione (la scelta di Zaia).
Una dura verità che è arrivata anche sulla
prestigiosissima Harvard Business
Review, che ha appena pubblicato lo studio “Lessons from Italy’s Response
to Coronavirus”, a firma Gary P. Pisano, Raffaella Sadun e Michele Zanini. Un
prezioso “bigino” – «nato non dalla volontà di fare i maestrini di Harvard, ma
da una profonda disperazione: siamo qui in America e abbiamo famiglie in Italia
che vivono realtà diversa», spiega Raffaella Sadun, Professor of Business
Administration in the Strategy Unit alla Harvard Business School, raggiunta a
Boston da Business Insider Italia -, dove trovano posto una per una le ragioni
che hanno portato l’Italia in vetta alla classifica di contagiati e deceduti da
Covid-19.
Una sorta di compendio delle insidie da
evitare quando ci si trova ad affrontare una epidemia, indirizzato sia a quegli
stati dove lo tsunami pandemico è in ritardo rispetto al nostro Paese, sia alle
autorità italiane «che possono correggere il tiro».
Secondo i tre docenti di Harvard, l’Italia
è divenuta un caso di studio perché è stato il primo Paese occidentale a
doversi confrontare con una pandemia, un’evenienza del tutto imprevista, il che
ha inevitabilmente portato a errori e a sottostimare il pericolo.
Ma lo è diventata anche perché “il sistema sanitario italiano è altamente
decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche”
e ognuna, vista con l’occhio dello studioso, rappresenta un esperimento. I cui
risultati devono essere il motore del cambiamento: si deve «capitalizzare le
conoscenze acquisite: capire cioè presto cosa funziona e interrompere subito
ciò che non funziona. E questo secondo passo che manca in Italia», spiega
Sadun.
In particolare, lo studio ha effettuato una comparazione tra le attività di contrasto
alla malattia intraprese da Lombardia e
Veneto, due regioni con profili socioeconomici simili – sebbene la
Lombardia abbia il doppio degli abitanti del Veneto, 10,5 milioni contro 4,9
milioni -, che però hanno abbracciato strade divergenti. La diversità dei dati
(e delle vittime), secondo lo studio, è riconducibile al fatto che la regione
di Zaia ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus,
puntando:
- su test approfonditi su casi sintomatici
e asintomatici precoci (i tamponi effettuati sono stati 94.784);
- tracciamento dei potenziali positivi;
- sul fatto che se qualcuno è risultato
positivo, sono stati testati tutti i presenti nella casa di quel paziente,
nonché i vicini;
- che se i kit di test non erano
disponibili, le persone si sono messe in auto-quarantena volontaria.
Oltre a ciò, ha optato per un sistema basato su diagnosi in loco e
assistenza domiciliare. Così come ha fatto l’Emilia-Romagna, dove la gestione del paziente positivo avviene
principalmente al di fuori delle strutture ospedaliere.
Una buona pratica, tanto che lo studio afferma:
“è necessario passare con urgenza da modelli di assistenza centrati sul
paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offra soluzioni per
l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare)”.
Il tutto, senza dimenticare poi la tutela degli operatori sanitari, ai quali
Veneto ed Emilia hanno assicurato da subito Sistemi di tutela individuali
(mascherine, camici, guanti) e tamponi per controllare l’eventuale contagio. Un
altro aspetto dirimente, rispetto alla
Lombardia, dove a tutt’oggi infermieri, medici e medici di base si ritrovano
privi degli strumenti minimi di difesa. Tanto che gli ospedali si sono
trasformati in centri di diffusione del virus, come tristemente scoperto nella
Bergamasca e nel Bresciano.
La Lombardia
invece (“seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo
centrale”, sottolinea lo studio), ha fatto il contrario:
- ha limitato il numero di test (a parità
di popolazione, ne ha fatti circa la metà del Veneto, fermandosi a 107.398);
- si è concentrata principalmente sui casi
sintomatici;
- ha effettuato “investimenti limitati in
tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare, monitoraggio e protezione
degli operatori sanitari”.
Il risultato
è che la Lombardia è prima per numero di
contagiati e decessi, mentre il Veneto tiene.
“Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni
altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una
potente opportunità di apprendimento”, si legge. “I risultati emersi dal Veneto
avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere velocemente le politiche
regionali e centrali. Tuttavia, è solo negli ultimi giorni, un mese intero dopo
lo scoppio dell’epidemia, che la Lombardia e altre regioni ha iniziato a
prendere provvedimenti per seguire alcuni degli aspetti dell’approccio veneto”.
Invece è fondamentale capire cosa non ha funzionato.
E in questo la Lombardia può essere molto
utile: “Mentre i successi emergono
facilmente grazie ai leader
desiderosi di pubblicizzare i propri progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o,
quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto
che sistemici”, sottolinea lo studio.
Per esempio: il premier Conte aveva accusato l’ospedale di Codogno (Lodi) di
aver gestito in maniera poco prudente il primo paziente Covid. “Tuttavia, un mese dopo è diventato chiaro che
quell’episodio era emblematico di un problema molto più profondo: ovvero che gli ospedali tradizionalmente organizzati per
fornire cure incentrate sui pazienti sono
mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia”.
«In questo momento trovare capi espiatori è
sbagliato», commenta Sadun, «non esiste
una responsabilità unica. Le decisioni iniziali sono difficili. Quello che
vediamo, però, è l’incapacità di
aggiornare decisioni che si sono rivelate sbagliate… Non si stiano
abbracciando i dovuti cambiamenti nella politica sanitaria e nel modo in cui
stiamo affrontando questo contagio, per paura di dover affrontare un costo
politico. In realtà, questo non sta succedendo solo in Italia, accade anche in
altri Paesi. Ma bisogna farlo e anche presto, perché gli italiani stanno
soffrendo», conclude la professoressa.
Nessun commento:
Posta un commento