da: Il Fatto Quotidiano - di Virginia della Sala
Fine del mito: dentro Big Tech si ridesta la voglia di sindacato
Il 2021 è iniziato in modo scoppiettante per il comparto sindacale statunitense, dove nell’ultimo decennio le sigle sono arrivate a rappresentare poco più del 7 per cento dei lavoratori del settore privato con un progressivo e costante calo (in linea con quanto accade in Europa e in Italia). A portare nuova linfa, però, a sorpresa è stata l’industria tecnologica. Terminata l’era del mito del datore di lavoro illuminato, con le sedi super moderne e decine di benefit per i dipendenti, oggi Big Tech si trova a fare i conti con la perdita dei propri ideali e dell’efficacia della sua narrazione.
Si potrebbe quasi dire che, a furia di lavorarci, i dipendenti abbiano compreso quale sia la vera essenza di questi quasi monopolisti. L’elemento di novità è che a dare il via, soprattutto mediatico, a questo movimento è stata proprio la parte di lavoratori iper specializzata e meglio pagata.
Il licenziamento delle due ricercatrici di Google
A gennaio i dipendenti di Alphabet, la società madre di Google, hanno annunciato la nascita di una sigla, la Alphabet Workers Union (Awu), criticata sin da subito per la sua presunta debolezza, così lontana dalle lotte sindacali “tradizionali”. Uno dei maggiori
motori della protesta, infatti, è stato il licenziamento - a dicembre – di Timnit Gebru, 37 anni, co-leader del team di etica per l’intelligenza artificiale di Mountain View.Nata ad Addis Abeba da genitori eritrei, dopo un dottorato in computer vision all’Università di Stanford, Gebru aveva lavorato anche in Apple e Microsoft. Nel 2017 aveva co-fondato “Black in AI” un network di professionisti che si propone di aumentare la presenza dei ricercatori neri nel campo dell’intelligenza artificiale e a novembre aveva firmato un articolo, insieme ad altri collaboratori, sulla necessità di trovare una soluzione ai rischi di discriminazioni nell’Intelligenza Artificiale (di cui parliamo in dettaglio nell’articolo qui accanto) e ai danni dal punto di vista ambientale di data center sempre più grossi e sempre più inquinanti. Il lavoro era stato sottoposto a un procedimento di revisione interna, una prassi, nell’ottica di presentarlo a marzo. L’azienda ha però prima chiesto a Gebru di ritirare dal paper le firme dei dipendenti di Google, poi ha commentato che la ricerca non sembrava rispondere ai requisiti per la pubblicazione, visto che - tra le altre cose - non includeva riferimenti alle soluzioni dell’azienda per ridurre l’impatto ambientale oppure ciò che era stato fatto nel campo per iniziare a “ridurre i bias nei modelli linguistici”. La ricercatrice ha quindi chiesto spiegazioni e maggiore trasparenza sulle procedure di approvazione, sottolineando l’ipotesi di terminare il proprio rapporto con la società al termine di un periodo di transizione qualora le sue istanze non fossero state soddisfatte.
A far scattare il licenziamento (comunicato come “accettazione di dimissioni”) è stato però lo sfogo contro quanto accaduto inviato da Gebru via mail ai membri del suo team, con questo oggetto: “Mettere a tacere le voci emarginate in ogni modo possibile” poi pubblicato dalla newsletter Platformer. La settimana scorsa è toccato all’altra fondatrice del team, Margareth Mitchell, licenziata con l’accusa di “molteplici violazioni del codice di condotta e delle norme di sicurezza, tra cui l’uscita di documenti riservati sensibili e dati privati di altri dipendenti”, ha detto un portavoce del gruppo. “Questi sono attacchi alle persone che stanno cercando di rendere la tecnologia di Google più etica”, ha commentato un portavoce dell’Alphabet Workers Union che, nelle ultime settimane, ha raccolto il primo giro di quote dai suoi circa 800 membri. Come rileva l’Economist, considerando il livello salariale di questi lavoratori, solitamente medio-alto, ci saranno molti soldi da poter spendere in avvocati.
I tentativi dentro Amazon in Alabama e nel mondo
In Alabama, invece, nelle scorse settimane a 5.800 lavoratori di Amazon sono state spedite le lettere per il referendum sindacale. A fine marzo, con lo scrutinio dei voti, si saprà se è nato il primo sindacato completamente dedito al gigante dell’e-commerce in America.
“Pur di mettere in cattiva luce questo nuovo movimento - ci spiega Gianpaolo Meloni, lavoratore di Amazon a Piacenza e attivista per la rappresentanza dei lavoratori in Italia - l’azienda aveva costruito un sito internet apposito, con 10-12 punti che ne sminuivano l’efficacia”. In America, spiega Gianpaolo, le battaglie sono più dure anche perché i lavoratori Usa non hanno le stesse tutele riservate a quelli italiani o europei. Fuori dagli Usa, al di là del ruolo che i sindacati tradizionali stanno assumendo nell’azienda a livello internazionale, esiste una Unione di lavoratori di Amazon che, ad esempio, tiene in contatto i lavoratori dei diversi paesi di tutto il mondo.
Ogni lavoratore e ogni Paese ha però una diversa sensibilità nei confronti di Amazon. “Il lavoratore medio di Amazon in Italia - spiega Gianpaolo – è quello che arriva da condizioni di disoccupazione altissima. Amazon predilige sedi là dove sa che sarebbero ben accolte dalla comunità e sa che rispetto alle condizioni di lavoro nella logistica tradizionale può apparire come il paese dei balocchi. Capisci che non è proprio così quando dopo due o tre anni, lavorando a ritmo di 140 pacchi all’ora, per 8 ore al giorno inseguendo una produttività inculcata come un mantra, iniziano le problematiche serie con polsi, spalle, tendini e schiena”.
C’è concorrenza, le prospettive di carriera interne illudono migliaia di lavoratori di potercela fare. I consigli su come lavorare in sicurezza diventano inutili e trascurati. Obiettivo referent, responsabile, manager: ma su 2mila, a farcela sono dieci persone al massimo ed il turn over è molto alto.
“Presto ti accorgi che le dinamiche sono le stesse di qualsiasi altra struttura produttiva ma inserite in un contesto raccontato come eccezionale. Facevo lo stesso lavoro per un privato: sgobbavo ugualmente, ma almeno non pretendeva che credessi al motto ‘work hard, have fun and make history’”. E se i lavoratori più anziani hanno imparato a difendersi, i giovani e i precari non hanno strumenti.
“Le istituzioni sembrano non accorgersi della situazione: se da un giorno all’altro l’azienda annunciasse una nuova tecnologia atta a sostituire i lavoratori con le macchine, lasciando per strada 4mila persone, non ci sarebbe nell’immediato nessun ostacolo a frenarlo perché manca una regolamentazione dall’alto. In più, ci sarebbe il grande tradimento di quel territorio che ti ha accolto proprio per l’occupazione e di quelle istituzioni che ti hanno reso un quasi monopolista. Eventualità che non è poi così lontana”.
Wokeness e salari: insieme nella lotta
Sindacati in Google e Amazon, quindi, anche se si tratta di due realtà molto diverse: da un lato i sostenitori della cosiddetta “wokeness ”, ovvero la consapevolezza di problemi sociali come il razzismo e le disuguaglianze in un contesto, quello dei lavoratori dell’informatica, dove la sindacalizzazione è inesistente. Dall’altro il personale dei magazzini.
I programmatori di Google si sono detti intenzionati a lottare per migliorare sia le condizioni dei lavoratori dei data center meno pagati, sia di quelli temporanei o provenienti da appaltatori. “Nessun lupo solitario dovrebbe ululare da solo senza un branco”, si legge sul sito di Awu.
Il
5 febbraio il sindacato ha presentato una denuncia contro Modis, unità di
outsourcing di Adecco sostenendo che abbia sospeso un dipendente di un data
center per aver messo in dubbio il divieto di discutere la retribuzione. La
Communications Workers of America, un sindacato che esiste da otto decadi, ha
avviato una campagna per l’organizzazione dei dipendenti digitali, la Code-Cwa
includendo anche il mondo dei videogames. Per i colossi, la preoccupazione è
che questi movimenti possano prendere piede spingendo altri a reclamare gli
stessi diritti. E hanno ragione a temerlo.
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