Diceva
mi padre
Ryan Pourjam è un ragazzino canadese che ha parlato di suo
padre come ogni padre, e in genere ogni adulto, vorrebbe che un ragazzino
parlasse di lui. Il padre di Ryan si chiamava Mansour ed era tra i 176 passeggeri dell’aereo che due missili degli ayatollah
hanno spedito per sbaglio all’altro mondo. Possiamo solo immaginare i
sentimenti di un adolescente verso chi ti ha scippato il padre in modo tanto
infame. Quando Ryan ha iniziato a parlare all’università di Ottawa, qualunque
parola orribile fosse uscita dalle sue labbra sarebbe apparsa giustificata.
Invece ne ha pronunciata una sola: forte. Questo era mio padre, ha detto. Forte
e positivo, nonostante nella vita avesse attraversato muri e tragedie: se fosse
morto un altro al suo posto, adesso lui non parlerebbe delle cose negative e
quindi non lo farò nemmeno io. Mi sembra di stare dentro un brutto sogno, ha
aggiunto Ryan, inghiottendo un sospiro. Ma so, ha concluso, che se adesso mi
svegliassi da quel sogno, papà mi direbbe «Andrà tutto bene» e così sarà.
Che discorso da brividi. Il dolore è sempre
un momento di svolta: puoi rimuoverlo, o provare a nasconderlo sotto l’odio per
chi te lo ha procurato. Ma puoi anche attraversarlo, ed è stata la scelta di
Ryan, suggeritagli dal padre con il suo esempio. I ragazzini ci ascoltano,
persino
quando a noi sembra che non lo facciano. Ed è ciò che sentono, non solo
con le orecchie, l’unica eredità che riusciamo a trasmettere.
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