Chiunque
abbia una minima frequentazione con i fatti di guerra sa bene che non è
possibile fare da interposizione in un contesto di guerriglia urbana come
quella in atto a Tripoli. Chiunque tranne il nostro governo.
Alla fase delle gaffe degli incontri a vuoto con i leader libici, alla quale non è
sfuggito neppure Vladimir Putin, ora l’Italia
di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (e l’Ue con loro) fa seguire quella che
non possiamo che chiamare la fase delle farneticazioni avventuriste.
Altro termine non c’è, infatti, per
definire la proposta partita dal nostro ineffabile e indefinibile ministro
degli Esteri di inviare a Tripoli una
forza militare di interposizione Ue (con perno sull’Italia) sul modello della
Unifil libanese.
Chiunque
abbia una minima, minimissima, frequentazione con i fatti di guerra sa bene infatti
che non è possibile fare da interposizione in un contesto di conflitto e guerriglia urbana, come è quella in atto a
Tripoli, se non al prezzo di pagare pesantissime perdite di soldati (anche
italiani), con un esito peraltro fallimentare. Né ha il minimo la precondizione
posta da Di Maio e da Conte di un intervento militare boots on the ground solo
dopo la firma di una tregua tra le parti.
TERRITORIO
URBANO TROPPO PERICOLOSO PER TRUPPE DI TERRA
Ammesso e non concesso che Haftar e al
Serraj siglino questa tregua, non si sfugge a un dato di fatto: la forza
militare di interposizione si deve, si dovrà disporre dentro uno spazio urbano (i quartieri periferici di Tripoli),
letteralmente tra strade e palazzi,
con cecchini e nidi di mitragliatrice dei due eserciti di fronte e alle spalle, a una distanza di poche, pochissime centinaia di metri.
con cecchini e nidi di mitragliatrice dei due eserciti di fronte e alle spalle, a una distanza di poche, pochissime centinaia di metri.
Uno
scenario da incubo, impraticabile, nel quale i nostri militari, assieme a
quelli della Ue, non possono, non potranno fare altro che da bersaglio,
con scarsissime, nulle, possibilità di difesa. È infatti giocoforza che gli uni
e gli altri contendenti libici (che si definiscono a vicenda «terroristi» e
«criminali di guerra», non potranno desistere dal creare situazioni di continue
provocazioni, con lo scopo peraltro di fare cadere sull’avversario la
responsabilità di avere infranto la tregua. È un dato fisiologico,
ineliminabile.
UN
CONTESTO TERRIBILMENTE SIMILE A QUELLA DI MOGADISCIO NEL 1993
Chi si propone oggi come forza di
interposizione in Libia deve ripetere dieci, mille volte queste parole: «Check
point Pasta!», «Check point Pasta!», «Black Hawk down!», «Black Hawk down!».
Deve ricordare insomma la dinamica della battaglia di Mogadiscio del 1993 (ma Di Maio aveva sei anni!), appunto in un
contesto di guerra e guerriglia urbana nella quale caddero ben 13 militari italiani, 19 militari americani, 23 militari
pakistani e migliaia di miliziani
somali, alleati o avversari della missione Onu Unosom. Un grande contributo
di sangue per una missione miseramente – e anche vergognosamente – fallita in
toto, alla quale seguì un totale disimpegno, senza aver conseguito nessun
risultato.
Citare oggi, come fanno Di Maio e Conte, il
successo della azione di interposizione
della missione Unifil in Libano rivela un’inquietante realtà: non hanno la minima idea di quello che
dicono e quindi del contesto radicalmente diverso dei due scenari. In Libano la forza di interposizione Onu è
schierata a ridosso di un confine ben definito e delineato che passa per campi,
colline, agrumeti e leggiadri boschi. Una fascia larga decine di chilometri, in
piena campagna dai larghi, larghissimi spazi, disseminata a distanza di
chilometri l’uno dall’altro di ameni villaggi. In Libia la linea del fronte passa attraverso il dedalo dei palazzi e delle strade della periferia di Tripoli, con
distanza di un centinaio di metri tra le due milizie. Un incubo di canyon,
regno dei cecchini.
PARLANO
DI INTERPOSIZIONE, MA INTENDONO FARE AMMUINA
È evidente insomma il pigro e dilettantesco meccanismo politico che porta ora Di Maio e
Conte (ma anche l’Europa) a parlare di «interposizione». Partono dall’assunto –
sbagliato – che non si deve scegliere di appoggiare nessuno dei due contendenti. Partono, dall’alto, non dalla conoscenza del teatro concreto
di guerra, partono dal principio che ci si impegna militarmente solo per «pacificare»,
quindi ci si interpone, si media, si passa di riunione in riunione.
A meno che – peggio del peggio – non si intenda “interporsi” non a terra, ma
solo pattugliando il mare e i cieli con la missione Sophia per far finta di aver fatto qualcosa per
impedire ai due eserciti di essere riforniti di armi. Ma gli armamenti possono
arrivare e arrivano copiosi in Libia via terra, dai porosissimi confini con
l’Egitto, Ciàd, Sudan e Niger per Haftar e dalla Tunisia (complice
probabilmente l’Algeria) per un al Serraj che infatti ha stretto rapporti
recenti con i due governi, veicolati dalla comune appartenenza delle forze che
di fatto sono il baricentro politico dei due Paesi, all’area politica della
Fratellanza Musulmana. Insomma una
“interposizione” di facciata, una “ammuina”. Specialità nella quale Di Maio e
Conte (e l’Europa) sono maestri.
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