2.
Il non-lavoro dei più
Una formulazione statistica precisa della condizione
1 è la seguente: fra i cittadini italiani ultraquattordicenni la
percentuale di quanti non svolgono alcun lavoro supera il 50%.
Contrariamente a quanto si potrebbe
supporre, questo passaggio cruciale non avviene in tempi recenti ma risale
addirittura al 1964, l’anno della “congiuntura”, ovvero della prima recessione
dell’economia italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. In
quell’anno, nel sistema economico italiano si producono due mutazioni cruciali.
La prima è che gli occupati a tempo pieno,
che erano cresciuti senza sosta dall’inizio degli anni cinquanta,
interrompono bruscamente la loro corsa, ed entrano in una traiettoria di
declino che, fra qualche oscillazione, perdura fino ai giorni nostri.
La seconda mutazione è che il numero di
cittadini italiani del tutto inoccupati, che non hanno né un lavoro a tempo
pieno né un lavoro a tempo parziale, diventano più numerosi dei cittadini
occupati.
Una svolta, quella del 1964, che animerà un
decennio di dibattiti sul mercato del lavoro fra la fine degli anni sessanta e
la fine degli anni settanta. A partire dal 1964, infatti, accade qualcosa di
singolare, che colpisce profondamente gli studiosi del mercato del lavoro:
l’occupazione diminuisce, perché le imprese riducono drasticamente il ricorso
alle fasce deboli della forza-lavoro (giovani, donne, anziani), ma la
disoccupazione non aumenta, o aumenta molto meno di quanto si riducano i posti
di lavoro.
Di qui due interpretazioni: da una parte la
maggior parte degli studiosi, sostenitori della teoria del “lavoratore
scoraggiato”, secondo cui è la debolezza della domanda di lavoro che
disincentiva la ricerca attiva di un lavoro. Dall’altra un manipolo di
studiosi, primo fra tutti il presidente dell’ISTAT De Meo, secondo cui il
ritiro di giovani, donne e anziani dal mercato del lavoro, è dovuto
essenzialmente al benessere che il miracolo economico ha improvvisamente e
repentinamente regalato agli italiani.
Quale che sia la lettura più corretta della
storia di quegli anni, resta il fatto che la prima condizione che definisce la
società signorile di massa – più inoccupati che occupati – viene
raggiunta già a metà degli anni sessanta, ovvero più di mezzo secolo fa. È
importante precisare che l’idea implicita in questa condizione non è che, in una
società normale (cioè non signorile di massa), tutti debbano lavorare
a tutte le età, ma semplicemente che coloro che – in quanto invalidi, studenti,
pensionati, o coniugi di partner che lavora – sono esentati dal lavoro
costituiscano una minoranza, magari ampia ma comunque inferiore al 50%. Il che,
in effetti, è quanto succede in quasi tutti i paesi avanzati. Ancora oggi,
a dispetto della straordinaria crescita del benessere avvenuta negli ultimi
cinquant’anni, nella stragrande maggioranza dei paesi avanzati il numero di
persone che lavorano è superiore al numero di persone del tutto inoccupate.
Oltre all’Italia, solo la Grecia ha un
tasso di occupazione totale inferiore al 50%.
Nel leggere questi dati bisogna tenere
presente che essi si riferiscono al tasso di occupazione totale, ossia dei
nativi e degli stranieri considerati congiuntamente (una scelta dettata dal
fatto che per diverse società avanzate non si dispone della disaggregazione fra
nativi e stranieri). Se avessimo considerato il tasso di occupazione dei
nativi, avremmo osservato che anche in Spagna e in Lussemburgo i cittadini che
lavorano sono meno del 50%.
Quanto all’Italia, la sua posizione sarebbe
risultata ancora più vicina a quella della Grecia: in nessuna società avanzata
lo scarto fra il tasso di occupazione degli stranieri e quello dei nativi è
ampio come in Italia, dove lavora il 59.8% degli stranieri e solo il 43.3% dei
cittadini italiani.
Un altro indizio dell’importanza che, nella
società signorile, svolge la presenza di un’ampia infrastruttura
paraschiavistica, di cui la popolazione straniera è quasi sempre una componente
essenziale.
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