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- di Annalisa Camilli
Come previsto, il 2 gennaio il parlamento turco ha autorizzato l’invio di soldati in
Libia, approvando una risoluzione con 325 voti favorevoli e 184 contrari.
Il 10 dicembre il presidente turco Recep
Tayyip Erdoğan aveva annunciato l’intenzione di sostenere militarmente il governo di accordo nazionale (Gna) libico
guidato da Fayez al Sarraj contro l’offensiva militare del generale Khalifa
Haftar. E a meno di un mese dal suo annuncio, ha ottenuto il via libera dal
parlamento.
Ora starà al presidente stabilire quanti
soldati mandare nel paese nordafricano, in cui in teoria vige l’embargo sulle
armi imposto dalle Nazioni Unite. Ma molti analisti sostengono che quella turca
sia stata una mossa di deterrenza, che non implicherà necessariamente l’invio
di truppe sul campo. Si tratta piuttosto di un annuncio per spingere Haftar alla ritirata e per sollecitare
l’apertura di un negoziato con la Russia, ma è anche un modo per Ankara di sottolineare il suo ruolo di potenza regionale.
Il testo della risoluzione approvata dal
parlamento di Ankara è ambizioso e parla della necessità di “proteggere gli
interessi della Turchia nel Mediterraneo, di prevenire il transito dei migranti
irregolari, d’impedire alle organizzazioni terroristiche e ai gruppi armati di
proliferare, di apportare un aiuto umanitario al popolo libico”. La Turchia ha
firmato con il governo di Tripoli un accordo di collaborazione militare e
marittima il 27 novembre 2019, che prevede l’intervento militare “via terra,
via mare e via aerea, se necessario”, scatenando reazioni allarmate in tutta la
regione.
Ridurre
gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali a un ruolo di spettatori è
l’obiettivo condiviso sia dal presidente russo sia da quello turco
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiamato Erdoğan al
telefono per metterlo in guardia sulle “interferenze
straniere” in Libia che potrebbero complicare la situazione, in un paese
dilaniato dalla guerra civile scoppiata nel 2011 e riaccesa all’inizio di
aprile del 2019 dall’offensiva di Haftar su Tripoli. Il primo ministro greco
Kyriakos Mītsotakīs, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il
presidente cipriota Nikos Anastasiadīs, in una dichiarazione congiunta, hanno
parlato della decisione turca come di “una pericolosa minaccia alla stabilità
regionale”. Cipro, Grecia e Israele intanto hanno firmato un accordo per la
costruzione di un gasdotto sottomarino lungo 1.900 chilometri che porterà il
gas dal Mediterraneo orientale all’Europa.
Anche l’Egitto ha condannato Ankara. La
risoluzione del parlamento turco è stata definita da molti analisti “una
dimostrazione di forza” di Erdoğan, che vuole avere un ruolo nel processo di
pace in Libia e assicurarsi un posto al tavolo dei negoziati per la spartizione
dei giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale.
Un’intenzione in parte confermata dalle
parole del vicepresidente turco Fuat Oktay, che ha insistito sul principale
effetto che dovrebbe avere l’intervento militare della Turchia: costringere
l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, a fermare l’avanzata su Tripoli.
Ma il vero interlocutore di Erdoğan è
Putin, atteso in Turchia l’8 gennaio per l’inaugurazione del TurkStream, il
nuovo gasdotto russoturco. Sarà in quell’occasione che i due presidenti
parleranno della Libia, cercando di negoziare una soluzione su modello di
quella individuata durante il processo di Astana nel 2017 per il conflitto
siriano.
Ridurre
gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali a un ruolo di spettatori è l’obiettivo condiviso sia dal presidente russo sia da quello turco. E l’intervento in Libia potrebbe rappresentare
un passaggio importante, che sancisce definitivamente la mancanza di un
progetto unitario da parte dei paesi europei in tema di politica estera e la
marginalità della Nato, dell’Onu e di tutti gli organismi internazionali. Un
vuoto occupato da nuove potenze autoritarie e spregiudicate come la Russia e la
Turchia.
La
ritirata di Washington
La Turchia era già presente in Tripolitania
al fianco del governo di unità nazionale, con una ventina di droni, armi e
mezzi pesanti e infine con un centinaio di mercenari che erano stati addestrati
da Ankara per il conflitto siriano. Tuttavia, prima con l’annuncio del 10
dicembre, poi con la risoluzione del 2 gennaio, Erdoğan è uscito allo scoperto,
dichiarando apertamente la sua volontà d’intervenire militarmente in Libia.
“In questo modo Erdoğan svela
l’inconsistenza del processo di pace e del negoziato multilaterale avviato
dalle Nazioni Unite e sposta l’attenzione sulla disputa sulle risorse del
fondale mediterraneo”, spiega Francesco Strazzari, docente di relazioni
internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. La Turchia può
permettersi di scoprire le carte e di uscire allo scoperto, tuttavia, perché
gli Stati Uniti si sono ritirati da quel fronte. “Gli americani sono fuori
dalla Libia, ma anche dal Sahel e da tutta l’Africa. Il loro mandato strategico
è solo quello di contenere la Cina e la Russia al livello globale, ma si stanno
ritirando da tutti i fronti africani. Questo ha aperto uno spazio che ha
permesso alla Russia e alla Turchia di definirsi come nuovi protagonisti e di
rivendicarlo pubblicamente”, continua Strazzari.
La dichiarazione
di guerra di Ankara tuttavia, non corrisponderà a nessuna azione eclatante:
“La Turchia ha già ampiamente schierato mezzi a sostegno di Al Sarraj al fianco
dei tripolini e dei misuratini”. Per Strazzari l’intervento turco sarà molto
circoscritto alla difesa dei suoi interessi commerciali ed economici nell’area.
“La Turchia ha 25 miliardi di dollari in contratti da tutelare, in Libia
persegue i suoi interessi per affermare un ruolo di potenza regionale in
un’area in cui non era storicamente presente. Lo fa in un momento in cui la
situazione è favorevole. Senza avere particolari rapporti con le milizie che
controllano il territorio della Libia occidentale”, spiega Strazzari.
“Da una parte interviene al fianco di
Tripoli, ma per altro verso Ankara cerca una sponda negoziale con la Russia”.
Questa strategia potrebbe avere due debolezze: da una parte Haftar che ha tutto
l’interesse a boicottare il negoziato che potrebbe essere avviato da Russia e
Turchia, velocizzando il suo intervento militare “per evitare che sulla sua
testa Putin ed Erdoğan si mettano d’accordo”. Il 3 gennaio per esempio Haftar
ha bombardato l’aeroporto di Mitiga, per impedire l’arrivo di soldati e di armi
e ha intensificato i bombardamenti a Tripoli, anche vicino al centro di transito
per rifugiati gestito dalle Nazioni Unite, in cui si trovano mille persone.
Per altro verso Erdoğan potrebbe rimanere impantanato nella rivalità tra le diverse
milizie dell’ovest della Libia, che controllano e gestiscono il potere locale e
da cui dipende il governo di accordo nazionale. Questo è un forte elemento di
debolezza rispetto all’intervento turco in Tripolitania, spiega lo studioso.
“La Tripolitania è sempre stata un rompicapo e non è detto che Erdoğan riesca a
imporsi dal punto di vista politico. Chiunque abbia provato ad allineare le
milizie che controllano l’ovest del paese, ha avuto dei problemi”, spiega
Strazzari. In ogni caso in questa nuova fase del conflitto libico si aprono tre
fronti: “Quello guidato dalla Turchia, finanziata e appoggiata dal Qatar in
sostegno della Tripolitania, il fronte dell’Egitto a sostegno di Haftar,
appoggiato dalla Russia, dagli Emirati Arabi Uniti, dalla Giordania e
dall’Arabia Saudita e quello dei paesi come Grecia, Cipro e Israele che sono
pronti a intervenire militarmente a difesa dei loro interessi nel
Mediterraneo”.
Chi
è in affanno è l’Europa, i paesi ex coloniali come l’Italia e la Francia e le
organizzazioni internazionali come la Nato e l’Onu che stanno perdendo terreno e
che insistono su un processo di pace, che appare in stallo e sempre più
svuotato di senso. “L’Italia trovandosi all’interno di un contesto europeo e
avendo un ruolo storico in Libia, con le infrastrutture estrattive dell’Eni che
sono presenti in tutto il paese, si percepisce come meno scoperta e meno
bisognosa di prendere una posizione a favore di un fronte o dell’altro”, spiega
Strazzari. È come se l’Italia avesse scommesso sulla sua capacità di venire a
patti con chiunque vinca: “Ma quando intervengono i turchi e i russi, la
situazione diventa più critica anche per gli italiani”.
Di fronte all’assertività turca e russa, la strategia diplomatica europea al momento
guidata dalla Germania che rilancia la conferenza di pace di Berlino, appare debole: “L’Europa ha poco da promettere alle parti in conflitto, per
costringerle a sedersi al tavolo delle trattative”. Ma la crisi è più
profonda e riguarda tutta l’area: “L’Europa ragiona ancora in termini di stati
nazione e usa categorie ottocentesche, senza riuscire a cogliere i cambiamenti
profondi che stanno avvenendo in tutto il Nordafrica e nell’area del Sahel”.
Questa mancanza di visione sul lungo periodo finora non ha fatto altro che
produrre fallimenti.
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