martedì 17 dicembre 2019

I fedelissimi di Francesco per le finanze vaticane



Da Guerrero Alves fino a Tagle: chi sono e che compiti avranno gli uomini messi dal papa in posti chiave della Curia. Dove continua a ridursi la presenza italiana.

Il Vaticano ha da qualche settimana un nuovo super ministro per l’economia, Juan Antonio Guerrero Alves, gesuita, spagnolo di 60 anni che ha ricoperto nel tempo diversi incarichi organizzativi e di governo nella Compagnia di Gesù. È quello che si può definire un uomo di fiducia del papa, un ministro più ‘politico’ che ‘tecnico’; evidentemente dopo tanti ‘stop and go’ nel cammino di riforma delle finanze d’Oltretevere, Francesco ha deciso che sono davvero pochi quelli di cui ci si può fidare: fra questi rientrano certamente i gesuiti il cui ruolo, non a caso, sta crescendo sia in Curia che nel collegio cardinalizio.

LA SFIDA DI GUERRERO E MARX
Il compito primario di padre Guerrero è quello di portare a termine uno dei passaggi chiave nel percorso di trasformazione delle finanze vaticane, ovvero la pubblicazione dei bilanci del piccolo Stato del papa. Un tassello che manca da diversi anni, nonostante gli annunci e le promesse fatte a partire dal 2014. Per far questo, tuttavia, il nuovo prefetto della segreteria per l’Economia dovrà riuscire a pianificare e razionalizzare le spese, verificare gli sprechi e le necessità reali di ogni ufficio vaticano, coordinare entrate e uscite. Queste attività sono esercitate dalla segreteria in collaborazione con un altro importante organismo, figlio anch’esso della riforma istituzionale voluta dal Papa: vale a dire il Consiglio per l’economia guidato dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e capo della Conferenza episcopale tedesca.


UN TESORETTO DI 700 MILIONI DI EURO
Tuttavia sia Guerrero che Marx dovranno vedersela ancora una volta con la segreteria di Stato che fino ad ora si è opposta a un suo ridimensionamento nel governo delle finanze. La recente vicenda dell’investimento confuso e opaco realizzato a Londra è appunto sintomo di questa situazione. La segreteria di Stato controlla infatti un proprio tesoretto, che ammonterebbe a circa 700 milioni di euro, una parte dei quali sono stati investiti nell’operazione immobiliare rivelatasi uni boomerang. In ogni caso, una fetta rilevante di questa cifra deriva dall’obolo di San Pietro, ovvero dalle collette dai fedeli per la carità del papa.

In realtà è noto ormai da diverso tempo (almeno da Paolo VI in avanti) che il fondo d’emergenza costituito attraverso l’obolo e le donazioni delle chiese locali presso la segreteria di Stato, ha avuto diverse funzioni: coprire i buchi di bilancio del Vaticano in momenti di difficoltà, sopperire alle necessità amministrative più urgenti, consentire di intervenire in situazioni critiche. Sono risorse che, come ha spiegato lo stesso pontefice sul volo che lo riportava indietro dal Giappone, vanno pure investite, ma in modo corretto e trasparente (e su questo aspetto è scoppiato l’ultimo scandalo, non sulla necessità di far fruttare le risorse a disposizione).

IL PESO DI PAROLIN NELLE PROSSIME SCELTE
Il  punto in discussione, ora, è se il Vaticano – data l’importanza che la questione assume per credibilità della Santa Sede – può permettersi che fondi di questo tipo siano esclusi dai bilanci e gestiti dagli uffici della segreteria di Stato e non invece, per esempio, attraverso lo Ior riformato per garantire un maggior controllo sul loro utilizzo. In tal senso peserà, e non poco, la parola del Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, un altro dei più stretti collaboratori di Francesco, il quale ha mostrato più volte di non voler sottostare, dal punto di vista finanziario, ad altri organismi vaticani (come invece sembrava intendere l’ex prefetto della segreteria per l’Economia il cardinale australiano George Pell che entrò in rotta di collisione con Parolin).

IL SENSAZIONALISMO SULL’USO DELL’OBOLO DI SAN PIETRO
Di certo c’è che un certo sensazionalismo scatenato intorno all’uso dell’obolo di San Pietro – da ultimo da parte del Wall Street Journal – circa il fatto che le offerte dei fedeli non siano utilizzate per opere di carità ma per far “funzionare”  il Vaticano, sembra sproporzionato. Si parla infatti di una cifra che sta intorno ai 70 milioni di dollari l’anno, a volte meno, senza dubbio significativa ma che diventa ben poca cosa in termini assoluti se si considera, per esempio, che l’evasione fiscale in Italia tocca i 109 miliardi di euro annui. D’altro canto, proprio da un certo grado di efficienza della Santa Sede dipendono interventi e azioni umanitarie importanti promossi dal Vaticano e dalla Chiesa. Tuttavia, la trasparenza è altra cosa: per la credibilità della Chiesa la vera accountability è quella nei confronti dell’opinione pubblica, e qui la strada da percorrere è ancora lunga.

Per questo non può passare inosservata un’altra nomina di peso fatta da Francesco negli ultimi giorni, quella del nuovo prefetto di Propaganda Fide, il dicastero per l’evangelizzazione dei popoli che può contare su un patrimonio immobiliare a oggi sconosciuto nonostante le tante ipotesi e illazioni. Si tratta del cardinale filippino Luis Antonio Tagle, da pochi giorni ex arcivescovo di Manila, a capo pure di Caritas internationalis, l’arcipelago mondiale delle organizzazioni cattoliche impegnate sul fronte della solidarietà verso i più poveri. Francesco, dunque, ha collocato un altro dei suoi fedelissimi in un posto chiave sia per le missioni che per le finanze, ridimensionando ancora  – va sottolineato – la presenza italiana nella Curia vaticana. A lasciare il posto di ‘papa rosso’  a Tagle infatti (questa secondo la tradizione la definizione attribuita al capo di Propaganda Fide), è stato il cardinale Fernando Filoni, diplomatico esperto e di lungo corso approdato a Propaganda Fide nel 2011 con Benedetto XVI che non aveva compiuto ancora l’età per andare in pensione (75 anni, Filoni ne ha 73).

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