da: https://www.internazionale.it/ - di Marco
Mancassola
Dalle
urne esce un Regno Unito intossicato dalla Brexit
Non c’è un lieto fine al termine degli anni
dieci. Le elezioni con cui cala il sipario su questo decennio occidentale
portano un risultato brutale. Stamattina, molti di noi a Londra si sono
svegliati attoniti, stravolti, perfino più del mattino seguente al referendum
del 2016.
La scelta posta agli elettori britannici
era binaria, quasi elementare. Da un lato, Boris
Johnson e il suo stratega Dominic Cummings hanno trasformato i tory in un
partito a tema unico, sotto il motto ossessivo di “Get Brexit done”. Dopo tre
anni e mezzo di convulsione politica permanente (uno stato di crisi che loro
stessi hanno cominciato con la vittoria dei pro Brexit al referendum), hanno
sfruttato un nuovo potente sentimento politico: il desiderio di un taglio
netto, di soluzione definitiva a ogni costo. Procedere con la Brexit e farla
finita.
Il messaggio
sottinteso era che la Brexit è tutto ciò che conta. Durante la campagna
elettorale Johnson non ha parlato quasi di altro, e si è sottratto alle interviste
per non essere interrogato su altri temi scivolosi.
All’opposto, il leader laburista Jeremy Corbyn ha
tentato la stessa operazione delle elezioni del 2017: spostare il dibattito
sui temi sociali. Allora, nel 2017, una campagna elettorale miracolosa e
l’inettitudine dell’avversario Theresa May gli avevano permesso di
sfiorare una
quasi vittoria. Per ripetere l’impresa, in queste settimane Corbyn ha parlato
di condizioni di vita, di ospedali privi di fondi, ha promesso immensi
investimenti pubblici. Un programma
ambizioso e molto articolato, un compendio di sogni socialisti. Il messaggio sottotraccia era che la Brexit in
fondo fosse un falso problema. Socialismo contro Brexit. Ma questa volta l’operazione è riuscita a metà.
Una
disperata domanda inconscia
Nei due anni trascorsi dalle scorse
elezioni, l’incancrenirsi della Brexit come questione identitaria ha
schiacciato la risonanza di ogni altro discorso. Non ha lasciato spazio, in
questa campagna elettorale, neppure al tema in apparenza popolare dell’emergenza
climatica. Chi sperava che queste elezioni, nel paese di extinction rebellion,
sarebbero diventate delle climate elections è rimasto deluso.
Ciò che resta, invece, sembra soltanto
l’esasperazione di un paese esausto, diviso, incapace di riconoscersi,
allettato dalle prospettive di “taglio netto”, pronto a fidarsi
dell’allucinazione obliquamente nazionalista della Brexit più che delle
promesse di un programma di cambiamento socialista.
Lassù, in Galles e nel “muro rosso” di
roccaforti laburiste nel nord dell’Inghilterra, le perdite per il Labour sono
state particolarmente dolorose. Luoghi come Workington, Darlington, Blyth
Valley, cittadine dal passato operaio o minerario, circoscrizioni che non
votavano per i tory dai tempi della seconda guerra mondiale, luoghi
fondamentali nell’identità sindacalista del Labour. Il trauma simbolico di
questo crollo è incalcolabile.
Tutto questo conferma ciò che è stato
sempre evidente: la Brexit è una trappola tossica, un’equazione a risultato
unico. Nel profondo, corrisponde a una disperata domanda inconscia (”chi
vogliamo essere come nazione?”) cui sembra impossibile dare una risposta
univoca, oggi, in una democrazia matura e complessa. E apre la strada al
trionfo di messaggi falsi e semplicistici.
Di fatto, Boris Johnson non ha vinto oggi,
ha vinto la sua battaglia per controllare la società britannica già nel 2016,
quando al referendum si improvvisò cinicamente capopopolo del risentimento
delle province inglesi e gallesi e sdoganò l’uso esplicito della menzogna (la
disinformazione diffusa da fonti tory e dai tabloid alleati è stata una spina
nel fianco dei laburisti anche in queste elezioni). E i laburisti non hanno
perso oggi. Hanno perso nel 2016, quando Corbyn, europeista tiepido, fece una
campagna insufficiente per spiegare le ragioni dell’appartenenza europea.
Un
uomo ossuto e cocciuto
Molte cose sono andate male in queste
elezioni, ma una delle più controverse non ha riguardato la Brexit. Almeno
negli ambienti urbani e progressisti, le divisioni create dalla Brexit erano
state di impatto relativo: in quegli ambienti, in genere, si era tutti dalla
stessa parte. Ma la furiosa polemica sull’antisemitismo nel Labour ha colpito
più vicino, ha provocato rotture, incrinato amicizie, creato una nuova dolorosa
faglia di divisione.
Di fronte alle decine di denunce di casi di
antisemitismo tra militanti ed esponenti corbynisti, di fronte alla clamorosa
inchiesta della Equality and human rights commission, molti hanno ritenuto
che si trattasse di polemiche ingigantite in modo strumentale. Hanno additato
manovre dei tory o le solite presunte cospirazioni dei blairiani. Hanno
ricordato (giustamente) la lunga militanza antirazzista di Corbyn.
Altri invece hanno desiderato che il leader
mostrasse di prendere più a cuore le preoccupazioni della comunità ebraica.
Soprattutto, che mostrasse più leadership. Che in certe interviste dicesse con
chiarezza: è vero, c’è questo problema, è terribile, mi dispiace e farò di
tutto per eliminarlo. Ma di fronte alle domande, Corbyn ha risposto spesso nel
suo tipico modo – mezze risposte, reazioni stizzite.
I dubbi
sulle capacità di leader di Corbyn sono affiorati ciclicamente, in questi
anni, anche tra chi appoggiava in pieno il suo messaggio socialista. È
difficile dire con precisione quanti voti siano stati persi dal Labour a causa
della controversia sull’antisemitismo. Ma la polemica, forse, ha fiaccato molti
umori, contribuito alla sensazione che qualcosa fosse svanito. Più volte, nelle
ultime settimane, ci si è ritrovati a chiederci: dov’era finita la Corbynmania
del recente passato? Dov’erano finiti i comizi oceanici, dov’erano i video
virali di Momentum (l’associazione di militanti pro Corbyn) che ci
galvanizzavano alle scorse elezioni?
I bassi indici di popolarità con cui Corbyn
termina la sua parabola politica sono un epilogo amaro. Corbyn ha avuto
chiaroscuri, atteggiamenti penosamente ambigui sull’Europa. Rimane però fra i
politici occidentali più influenti di questi anni dieci. Ha ridato passione
alle sinistre di mezzo mondo, cambiato il clima culturale nel Regno Unito,
riacceso la lotta ad austerity e ineguaglianze sociali. Sarebbe un peccato se il
prossimo o la prossima leader laburista non ripartisse da qui – mentre Johnson e Cummings, da parte loro, non
perderanno tempo e apriranno gli anni
venti provando a ristrutturare la società britannica, trasformandola in un
nuovo far west ultraliberista. Brexit, in fondo, è sempre servita a questo.
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