da: https://www.rockol.it/recensioni-musicali
- recensione di Giampiero Di Carlo
“Western
stars” è il disco più “un-Bruce” mai ascoltato: la recensione
Un
album in cui certe ballad che Springsteen ha da sempre dentro si sono
trasformate in quelle pop song che mai avremmo creduto di ascoltare da lui. Il
migliore band leader della storia del rock ha vestito per una volta i panni del
direttore d'orchestra.
Attori, stuntman, autostoppisti, cowboy,
viandanti. E Nashiville,
Tucson, Hollywood, Sundwon. Un viaggio, una galleria di
personaggi, tante storie andate a male. Suona familiare, no? Puro Springsteen,
no? Sì. Anzi: no. “Western stars” è il disco più “un-Bruce” mai ascoltato.
Il narratore di “Hitch hikin’”, che viaggia leggero portando con sé ‘solo quello
che può contenere la sua canzone’, procede senza meta. Gli danno un passaggio
una giovane coppia con lei incinta, un generoso camionista con la foto della
sua bella sul cruscotto e il fanatico di motori che fa lo spaccone sulla sua
auto truccata. Riecco quelle istantanee che valgono la prosa dei migliori
autori americani: in sedici righe c’è un romanzo che aspetta di essere scritto,
in quattro minuti un documentario sull’America. “Western stars” comincia con
questa filastrocca adulta sorretta da un banjo spensierato che va avanti senza
mai cambiarle il ritmo, ma poi il pezzo cresce di intensità e si apre quando, a
un certo punto, entrano gli archi. Batteria e basso assenti, qui è questione di
armonia. Quella che in “Nebraska” o “Tom Joad” sarebbe stata una ballata,
si trasforma in un vintage pop a stelle e strisce. E sarà la cifra musicale
dell’intero album: all’alba dei suoi settant’anni Bruce Springsteen rivela di
sé una dimensione ancora sconosciuta.
Certo, le sue dichiarazioni di aprile e i
primi due singoli avevano preparato un po’ alla sorpresa. “Hello sunshine” aveva subito riportato alla mente l’Harry Nilsson
di “Everybody’s talkin’” e “There goes my miracle” aveva reso omaggio a Roy
Orbison; il tributo al grande pop americano veniva servito - ma quello era solo
l’antipasto di portate ben più sostanziose, tutte condite col contrasto tra le
“nuove” melodie di Bruce e l’amarezza che accomuna a questo giro i suoi
ordinari Joe.
“The
wayfarer”, secondo brano
in tracklist, agli archi aggiunge i fiati e regala un’altra fuggevole
sensazione di deja-vu che, stavolta, pare condurre dalle parti del Billy Joel
degli esordi. Ma cosa sta accadendo? E’ il trattamento che ha scelto per queste
nuove canzoni a rivelarci un Bruce inedito o il Boss ha sapientemente
maneggiato il songbook americano degli anni Sessanta e Settanta e, lasciando da
parte il folk, ha tirato fuori il coniglio dal cilindro?
In un’atmosfera che sembra stata disegnata
apposta per una colonna sonora – ma il film dobbiamo immaginarcelo – solo
“Tucson train” rimanda alla E Street Band, mentre il capolavoro assoluto è la
title track. “Western stars” è avvolgente e onirica come il suono fantastico
della slide. Struggente l’immagine che propone del vecchio e obsoleto eroe del
western, massacrato dalla vita e tuttavia grato di svegliarsi ancora con i suoi
stivali addosso. Una stella del cinema sbiadita prigioniera dell’illusione
patetica del viagra, sì; ma anche e sempre il cowboy che guarda ai “fratelli”
dietro al filo spinato: il suo spirito è intatto, perché quello dell’America
non lo è più? Un pezzo politico dentro a un sussurro potente che, cambiando
registro lungo i tredici pezzi del disco, diventerà una costante. Quando tutti
perdono, la sconfitta è del Paese.
L’occasionale festa mariachi che avvolge “Sleepy Joe’s Cafè”, il localino
diventato una miniera d’oro grazie all’autostrada che gli è stata costruita di
fianco, è l’oasi intorno alla quale passa un’orda di gente disillusa e
sopraffatta dalla vita. Ma quella che Bruce Springsteen denuncia oggi senza
alcun bisogno di ricorrere a una sola “protest song” non è più l’America
reaganiana, e non è la recessione economica a piegare lo stuntman di “Drive fast” o il disperato
protagonista di “Chasin’ wild
horses”. No. Questi un lavoro ce l’hanno, eppure si annichiliscono nella fatica
e nel dolore per non pensare, per dimenticare i loro errori che sono costati
gli amori perduti per sempre. Gente in fuga, disperata, svuotata dentro di sé
per avere peccato di superficialità, per avere trascurato i valori in mezzo ai
quali era cresciuta. E’ gente in fuga da quando il rimorso ha riacceso un amore
perduto per sempre, altro che “Born to run” - di quei 45 anni trascorsi da
allora l’America avverte tutto il peso. Ascoltare “Stones” per credere: ecco un’altra perla a base di peccati e
bugie, in cui la metafora dei sassi in bocca come punizione per le menzogne di
una vita è veramente potente.
“Sundown” è
il luogo ideale della redenzione nella narrazione springsteeniana del 2019, ma
con un’avvertenza: “non il posto dove vuoi stare per conto tuo”. Lo spirito di
Burt Bacharach aleggia sulla sua melodia ma, Dio lo abbia in gloria, ha il
garbo di restarsene in sottofondo, come se tra geni di mondi musicali lontani
ci fosse la consapevolezza condivisa di quanto sia sottile la linea che separa
il genio dal disastro… Un altro inedito magheggio armonico, l’ennesimo episodio
in cui il suono compresso e esplosivo lascia spazio e respiro abbondante tra
gli strumenti.
“Western
stars” è quel grande album in cui certe ballad che
Springsteen ha da sempre dentro si sono trasformate in quelle pop song di
spessore che mai avremmo creduto di ascoltare da lui. E’ il disco in cui il
migliore band leader della storia del rock, pur senza cedere al tuxedo, ha
vestito per una volta i panni del direttore d’orchestra.
TRACKLIST
01. Hitch
Hikin' - (03:36)
02. The Wayfarer
- (04:18)
03. Tucson
Train - (03:29)
04. Western
Stars - (04:38)
05. Sleepy
Joe's Café - (03:12)
06. Drive Fast
(The Stuntman) - (04:15)
07. Chasin'
Wild Horses - (05:03)
08. Sundown -
(03:14)
09. Somewhere
North of Nashville - (01:52)
10. Stones -
(04:44)
11. There Goes
My Miracle - (04:03)
12. Hello Sunshine - (03:54)
13. Moonlight Motel - (04:18)
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