da: Il Fatto Quotidiano
Web
content, non possono essere Facebook o Google a stabilire cosa è illecito online
di Guido
Scorza
E’ una comunicazione ponderata, articolata,
ricca di contenuti quella che la Commissione europea ha
trasmesso al Parlamento e al Consiglio in materia di lotta ai contenuti
illeciti online.
Si sbaglierebbe – come forse un po’ troppo
frettolosamente taluni hanno fatto – a bollarla come un semplice ultimatum a Facebook,
Google, Twitter & C. perché si diano più da fare per tenere pulita la rete
dai terabyte di contenuti spazzatura che i quasi 4 miliardi di suoi utenti vi
riversano quotidianamente e si sbaglierebbe, allo stesso modo, a considerarla
il punto di arrivo di una riflessione che, evidentemente, al contrario, non è
ancora sufficientemente matura, equilibrata e bilanciata.
Ci sono alcuni principi condivisibili e,
anzi, sacrosanti e ce ne sono altri che lasciano perplessi e, anzi, stridono o,
almeno, rischiano di produrre derive stridenti, con taluni principi
fondamentali nei quali i Paesi dell’Unione europea si riconoscono.
Impossibile, ad esempio, non trovarsi
d’accordo quando la Commissione scrive che ciò che è illecito offline deve
essere considerato tale anche online e, egualmente, non si può non condividere
il principio secondo il quale quando l’Autorità competente di uno Stato membro
accerta l’illiceità della pubblicazione di quel contenuto, il contenuto in
questione dovrebbe sparire dallo spazio pubblico telematico nel minor tempo
possibile.
Ed ha egualmente ragione da vendere la
Commissione quando invita, sollecita, spinge le grandi Corporation che
gestiscono le piattaforme online a investire sempre di più in tecnologie utili
a garantire ai cittadini europei una navigazione online sicura perché è giusto
pretendere da chi, a colpi di tecnologia, ha trasformato il nostro modo di
vivere che, con la stessa tecnologia, consenta una crescita sostenibile della
nostra società.
Ma dove le buone intenzioni rischiano di
scivolare in uno scenario democraticamente insostenibile è laddove la
Commissione auspica, invita, preme perché i giganti della Rete assumano un
ruolo pro-attivo nel tenere pulita Internet dai contenuti illeciti e perché si
attivino sempre più velocemente per la rimozione di contenuti segnalati come
illeciti da una congerie eterogenea di soggetti privati, taluni più
qualificati, talaltri semplici utenti delle piattaforme in questione o,
addirittura, anonimi naviganti di passaggio.
Qui le buone intenzioni rischiano di
perdersi in un principio che non appartiene – ed è bene non appartenga – alle
culture e alle democrazie europee: quello, di machiavellica memoria, secondo il
quale il fine giustifica i mezzi che, aggiornato nel lessico e nello spirito,
potrebbe essere tradotto in un ciò che è tecnologicamente possibile è anche
giuridicamente lecito e democraticamente sostenibile.
Non è così.
In una società democratica non è compito
delle corporation che gestiscono le grandi piattaforme online di condivisione
dei contenuti valutare e giudicare della legittimità della pubblicazione di
tali contenuti e bilanciare quando diritti – magari fondamentali – dei singoli
come quelli alla reputazione, alla privacy, all’onore meritino tutela anche a
costo di sacrificare diritti e interessi collettivi della società, come il
diritto di sapere, informare e informarsi.
E la circostanza che la tecnologia ed il
mercato abbiano fatto di Facebook, Google, Twitter & C. i nuovi gatekeeper
della circolazione dei contenuti online non basta per indurci a rivedere questa
conclusione. Decidere se una condotta altrui – come la pubblicazione di un
contenuto – è lecita o illecita è un compito che non può che toccare a un
giudice – o al limite a un’Autorità amministrativa indipendente – e non può che
essere esercitato nell’ambito di un giusto processo nel quale l’autore del
contenuto e chi da quel contenuto si ritiene leso abbiano la possibilità di
difendere e rappresentare le proprie contrapposte posizioni.
E qui che, in alcuni passaggi, la
Commissione sembra inciampare.
Perché è vero – come ben si scrive nella
Comunicazione – che ciò che è lecito e ciò che è illecito è stabilito dalla
legge ma è altrettanto vero che le leggi, almeno allo stato, non sono scritte
per essere applicate da algoritmi e per condurre, in modo automatico o semi
automatico, a risultati binari: lecito o illecito. L’interpretazione e
l’applicazione della legge è, in tutte le democrazie europee, un fatto
straordinariamente complesso, appannaggio esclusivo – all’esito di conquiste
ultracentenarie – di un potere autonomo e indipendente come quello giudiziario.
Ipotizzare che “solo” per far prima, più in
fretta o in modo più veloce tale potere possa essere affidato anche a soggetti
privati e che lo Stato possa, in una certa misura, abdicare e rinunciare al suo
esercizio è pericoloso, sbagliato, incompatibile con i principi fondamentali
sui quali l’Europa è costruita.
Online come offline, il lecito e l’illecito
non corrispondono a tessere bianche e tessere nere, non esistono bit buoni e
bit cattivi è sempre – o quasi – tutto opinabile, tutto figlio del contesto,
tutto influenzato o influenzabile da fattori diversi, estranei al contenuto in
sé, fattori che devono essere valutati, studiati, approfonditi, soppesati e
bilanciati. Basti pensare a quanto è talvolta difficile distinguere la satira
dalla diffamazione, la violazione dei diritti d’autore da un utilizzo di quei
diritti nell’ambito di una libera utilizzazione, un’istigazione o un’apologia
di reato da parole – magari sopra le righe – ma libero e “scusabile” esercizio
della libertà di manifestazione del pensiero.
E’ a questo che servono i giudici che non
amministrano una giustizia perfetta ma la miglior forma di giustizia sin qui
nota alle nostre società.
Le corporation che gestiscono le grandi
piattaforme online non possono solo – cosa che correttamente preoccupa la
Commissione – far troppo poco per tener pulita la Rete ma, specie al punto in
cui sono arrivate nei relativi mercati, possono anche far troppo: non rimuovere
ciò che è illecito ma anche rimuovere ciò che è lecito anche perché, per loro,
il valore economico di un singolo contenuto ha un valore pressoché inesistente
e ai loro azionisti, certamente, interessa di più non rischiare sanzioni
stellari come, ad esempio, quelle appena introdotte in Germania per l’ipotesi
di mancata rimozione di un contenuto e mantenere buoni rapporti con questo o
quel governo.
Di questo rischio di deriva censorea,
onestà intellettuale impone di dire che la Commissione, nelle ultime pagine
della sua comunicazione, si preoccupa ma, in tutta onestà, troppo poco, in modo
un po’ approssimativo, dimenticando che nessuno di noi, utenti della Rete,
purtroppo, può vantare un vero diritto a che Google indicizzi un nostro
contenuto o Facebook ne consenta la circolazione globale: quando un contenuto
viene disindicizzato o rimosso, pertanto, il rischio che, anche se errata, la
decisione del gestore del servizio o della piattaforma equivalga a una condanna
all’oblio perenne è elevato, enorme, imponderabile.
Ai giganti del web possiamo e dobbiamo
chiedere di supportare sempre di più giudici e autorità nell’enforcement dei
diritti online e di porre a loro disposizione, in una virtuosa collaborazione,
mezzi, tecnologie e, eventualmente, anche risorse economiche ma sarebbe un
errore chieder loro – come è già troppo spesso accaduto – di sostituirsi a
giudici e autorità nell’amministrazione di quella che, inesorabilmente, sarebbe
solo un surrogato della giustizia, niente affatto indipendente, niente affatto
terza e, soprattutto, niente affatto imparziale.
Si valuti – se davvero quello della
circolazione dei contenuti online è un fenomeno che ha raggiunto dimensioni
emergenziali – se sia opportuno rafforzare le Autorità nazionali già preposte
al contrasto al fenomeno o, eventualmente, costituirne una europea ma, per
carità, si lasci l’amministrazione della giustizia saldamente nelle mani dei
giudici e al riparo da ogni forma spontanea o indotta di privatizzazione.
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