Ci aveva azzeccato. Alberto Ferri
ricoverato in terapia intensiva all’ospedale Sant’Eugenio per un infarto al
miocardio fu la prima notizia che Clara Caputo, ex signora Ferri, diede al
giudice e al vicequestore prima ancora di farli accomodare in salone. Lei non
aveva nessuna intenzione di andare dal suo vecchio marito, al capezzale c’era già
Monica, la collega giornalista ed amante, la causa del loro divorzio. Clara
teneva i capelli sciolti e disordinati, e non aveva più occhi. Erano due cerchi
neri, più neri delle spirali che le occhiaie le disegnavano sul volto. Le
labbra esangui, seduta su una poltroncina accanto alla finestra tremava, e il
pallore del viso spiccava sulle pareti della casa colorate come la tavolozza di
un pittore e così i mobili, le stoffe e i ninnoli sulle librerie, un
caleidoscopio che però non metteva allegria, anzi spegneva la luce e rendeva
tutto oppressivo. Anche le tende, viola e arancione, soffocavano l’ambiente. A
Rocco venne l’impulso di strapparle, spalancare le finestre e dare due mani di
bianco.
«Ci dispiace tanto, signora... ma dobbiamo
farle qualche domanda su suo figlio» esordì il magistrato. Clara annuì composta
mordendosi le labbra e poggiando le mani sulle ginocchia, lisciandosi la gonna.
Era pronta.
«Ha mai avuto il sospetto che Giovanni
frequentasse gente strana?».
La donna fece no con la testa.
«Ha mai avuto problemi comportamentali?».
La donna fece no con la testa.
«C’è mai stato un episodio della vita di
suo figlio che ultimamente l’ha allarmata? Che so, una ragazza, un esame andato
male...».
E per la terza volta la donna fece no con
la testa.
«Era fidanzato?».
Clara aprì la bocca: «Con Isabella».
Rocco annuì e lesse su un figlio: «Isabella
Massari?».
«Sì...».
«Ci racconta una giornata di Giovanni?».
Dolci e lente due lacrime scesero dagli
occhi della donna. «Si alzava tardi. A meno che non dovesse andare
all’università. Era al primo anno di legge. Aveva già dato due esami. Aveva
degli amici in facoltà, si vedeva con Isabella, ogni tanto allo stadio. Giocava
a tennis». Si tolse una ciocca di capelli dal viso. «Che le devo dire? Era un
ragazzo normale». Si infilò una mano nella tasca della gonna e prese un
fazzoletto di carta per asciugarsi gli occhi. Si soffiò il naso e tornò a
guardare i due uomini. «Una vita normale... Giovanni era uno tranquillo. Si
figuri che ancora andava in giro con il motorino 50, quello che il babbo gli
aveva comprato a 16 anni. Non voleva neanche una moto più grande, come tutti i
suoi amici che lo prendevano in giro. Mi raccontava che quando andavano in un
posto, lui arrivava sempre per ultimo. Sammy, lo avevano soprannominato, la
tartaruga di mare dei cartoni animati».
D’Inzeo annuì. «Sì, li vede anche mio
nipote...».
«Ecco. Questo era Giovanni. Un ragazzo
normale. E io non lo so cos’è successo. E non lo sapremo mai, vero?».
«Su questo ci lasci dubitare» fece Rocco.
«Lei può darci la targa e il modello del motorino di suo figlio?».
«Certo...» la donna si alzò. Poi rifletté
su qualcosa, guardò i poliziotti. Stentava a parlare, come se si vergognasse,
ma le parole premevano per uscirle dalla bocca. Alla fine si decise. «Sarebbe bello
se voi non foste degli angeli vendicatori ma semplicemente degli angeli e foste
venuti qui a riportarmi mio figlio». Poi abbassò la testa e lasciò la stanza.
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