RUE PIAVE
UN DELITTO ANCORA IRRISOLTO
Non si parla più dell’omicidio di rue Piave
che più di un mese fa ha visto la vittima Adele Talamonti crivellata da sei
colpi mentre era ospite, a quanto riportato dal portavoce della procura, in
casa del vicequestore Rocco Schiavone. Chi è penetrato in quell’appartamento
per uccidere la povera Adele? Era proprio lei il bersaglio o le pallottole
erano destinate al vicequestore? Ormai siamo gli unici a farci ancora domande.
È nostro dovere ricordare ai lettori che alcuni fatti apparentemente
inspiegabili hanno magari una risposta semplice ma scomoda. Come quella per
esempio di non gettare fango su un dirigente della polizia che da dieci mesi
lavora nella questura di Aosta e che sembra il protégé del questore Andrea
Costa. Noi invece ricordiamo che la notte del 13 maggio Adele Talamonti è stata
brutalmente assassinata e che da allora, nonostante le tante promesse, di
quell’omicidio non si conoscono i mandanti e tanto meno gli esecutori. Una sola
cosa è accaduta: Rocco Schiavone ha cambiato casa. Evidentemente non riesce a convivere
con le sue responsabilità. Ci auguriamo che la questura o il dottor Baldi diano
presto al giornale e ai cittadini una risposta concreta.
SANDRA BUCCELLATO
Accartocciò il quotidiano e lo lanciò nel
cestino dei rifiuti. Doveva chiudere la bocca una volta e per sempre a Sandra
Buccellato, la giornalista, ex moglie di Costa, responsabile dell’odio che il
questore aveva per i giornalisti grazie a una sua fuga con un cronista de «La
Stampa». Doveva incontrarla, minacciarla, picchiarla. Come si permetteva? La
frase nell’articolo: «... Evidentemente non riesce a convivere con le sue
responsabilità...» più di ogni altra gli aveva scosso i nervi. Lui con le sue
responsabilità ci conviveva dal 7 luglio 2007, che ne sapeva Sandra Buccellato?
Ma non c’era niente da doverle spiegare, bisognava solo fare un salto in
redazione e ridurla al silenzio.
Il caffè sapeva di terra e le brioche di
burro fuso.
«Che ha dottore?» chiese Ettore. Nel bar
c’erano già una decina di persone che facevano colazione. Rocco scosse la testa.
«Ettore, stamattina non è giornata».
«Già sveglio? C’è qualcosa che bolle in
pentola?».
«No, niente. Tu conosci Sandra
Buccellato?».
Ettore sorrise. «Se la conosco? Viene al
bar almeno tre volte al giorno. La redazione è qui di fronte».
«E me la puoi descrivere?».
«No. Perché io i giornali li leggo, lei la
conosco, e so che vuole un identikit per individuarla e farle qualcosa di molto
sgradevole».
«Ettore, io le donne non le tocco».
«Ah no? Allora parliamo di Nora Tardioli,
che le ha versato, proprio qui fuori, uno Spritz sulla giacca. O di Anna
Cherubini, che al solo sentire il suo nome diventa pallida e le vengono delle
chiazze rosse sul collo...».
Rocco guardò il barista negli occhi. «Certo
che i cazzi tua...».
«Mai dottore, mai! Ho un bar...» disse a
giustificazione del suo comportamento. Si voltò e tornò al bancone. Rocco finì
il caffè. Fece per uscire, poi si fermò sull’uscio. «E allora, visto che sai
tutto» gridò. Tre persone si voltarono a guardarlo. «Sai anche di che razza è
il mio cane?».
«Saint-Rhémy-en-Ardennes, dottor Schiavone.
Come non conoscere quella razza?».
Scoppiarono a ridere. Ettore gli piaceva
sempre di più. «Le dica che la sto cercando!».
«Riferirò».
Doveva esserci uno sciopero fra gli addetti
alle pulizie dell’ufficio perché nessuno sembrava aver messo piede nella
stanza. Il disordine della sera prima era ancora lì, neanche la sua scrivania
fosse la scena di un crimine che deve restare intonsa fino all’arrivo della
scientifica. Chiuse la porta, aprì il cassetto. La scatoletta di legno
intarsiato era vuota. Un pugno allo stomaco. Un ostacolo insormontabile. Quella
che stava per fumare era l’ultima canna. La preparò con attenzione maniacale.
L’accese. E se la gustò in santa pace guardando il cielo fuori dalla finestra
aspettando che i neuroni intasati dalla notte insonne riprendessero a
funzionare.
Il telefono squillò alla terza boccata.
«Schiavone...».
«Costa».
«Stavo per salire da lei, dottore...».
«Bene. E lasci il cane nella stanza.
L’ultima volta mi ha mangiato una zampa della sedia». Rocco mise giù il
telefono. Guardò Lupa che se ne stava accucciata sul divano a dormire. Raccolse
da terra la pallina da tennis che le aveva comprato e gliela mise vicino al
muso. Aprì la finestra e uscì dalla stanza.
Costa era piazzato al centro della
scrivania e Baldi seduto su una delle due poltrone di pelle chiara. Il giudice
scrutò fisso Rocco, a malapena gli strinse la mano, mormorando a mezzavoce un
«Salve...» carico di risentimento. Anche Costa era nervoso e, al contrario di
Baldi, sparò il saluto a tutto volume, come era solito fare: «Buongiorno dottor
Schiavone, prego si segga!» e indicò la poltroncina libera, proprio accanto al
giudice. «Bene bene bene...». E il questore intrecciò le mani poggiandole sul
tavolo, poi andò subito al punto. «Parliamo del caso di rue Piave. A quanto mi
dice il dottor Baldi, lei è a conoscenza dell’omicida e del movente, ma non
vuol dividere le informazioni con noi. È vero o è solo una speculazione del
magistrato?».
Rocco guardò Baldi e gli sorrise. «Sapete
tutto. Quindi perché girarci intorno?».
«Lei è un rappresentante delle istituzioni»
intervenne Baldi, «e dovrebbe agire come tale. Io le ripeto: sappiamo che lei
va spesso a Roma, sappiamo con chi si incontra, chi frequenta...».
«E sapete anche il nome dell’omicida, Enzo
Baiocchi».
A quel nome Costa e Baldi si guardarono.
«Chi è Enzo Baiocchi e perché la vuole morto?».
Rocco stirò il collo, dolorante ancora
dalla notte passata in bianco. «Sapete tante cose di me, perché questa non la
sapete?».
«Lei è un uomo irritante e non si rende
conto, Schiavone, che io e Baldi stiamo provando ad aiutarla. Questo lei lo
capisce? La stiamo proteggendo!».
«Proteggendo da cosa?».
«Ha tanti nemici, e mica solo fra i
delinquenti. No, ne ha tanti pure al Viminale. L’hanno mandata qui, ma le
sarebbe potuto andare molto peggio».
«Sicuro?».
«La pianti con la sua ironia del cazzo!»
gridò Baldi. «Lei rischia il deferimento, e molto peggio».
Schiavone allargò le braccia. «Tipo? Essere
cacciato dalla polizia? Mandato in qualche posto sperduto sull’Aspromonte?».
«No, amico caro» e Costa sfoderò un sorriso
di convenienza. «Lei rischia una seria indagine sui suoi conti, sui suoi
acquisti, le sue proprietà, le sue amicizie. Essere cacciato dalla polizia, mi
creda, sarebbe un regalo in confronto a quello che le potrebbero fare». Costa
si alzò in piedi. Fece due passi verso la finestra. Strinse le mani dietro la
schiena e tirò un respiro. «E non avrà alleati, Schiavone. Né in me né nella
procura. Per lei inizierebbe un calvario infinito, e le giuro che ce la
metteremo tutta per arrivare fino in fondo. Allora» si girò di scatto verso
Rocco, «ci racconta qualcosa o chiudiamo qui la riunione?».
Rocco si passò le mani sul viso. Guardò i
due inquisitori. «Tre cose: tempo...».
«E quello ne abbiamo quanto ne vuole» disse
Baldi.
«Caffè...».
«Faccio portare... la terza cosa?».
«Voglio qui il mio cane».
Costa alzò il telefono. «Rispoli? Porti su
il cane di Schiavone. E dica di non passarmi telefonate per tutto il giorno.
Giacché ci si trova, ci faccia portare acqua e caffè». Chiuse la comunicazione.
Si sedette. «Bene. Siamo tutt’orecchi».
«Prima di cominciare...».
«Ancora?» fece spazientito Baldi.
«Posso sapere tutte queste notizie su di me
come le avete avute?».
Baldi e Costa sorrisero. «Lei ha i suoi
canali, noi i nostri».
Rocco prese una sigaretta dal pacchetto e
la mise in bocca. «È permesso?».
«Questo è un caso eccezionale. Ma è la
prima e l’ultima volta nel mio ufficio». Gli accese la sigaretta con un Dupont
da scrivania. Rocco fece il primo tiro, sputò il fumo verso il soffitto, poi
attaccò: «Allora, facciamo come quando si legge un libro. Io racconto il 70 per
cento, il resto lo mettete voi con un po’ di fantasia. Ne avete da vendere,
no?».
Baldi e Costa non risposero e Rocco
cominciò.
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