Tim
senza pace, quarto cambio al vertice in 4 anni. E Vivendi prepara il nuovo
ribaltone
di Giovanni
Pons
Quello che si diceva ad aprile scorso, al
momento dell’assemblea che ha portato il fondo Elliott a conquistare la
maggioranza del board di Tim, si è puntualmente verificato. Il compromesso su
Amos Genish era a tempo determinato, giusto per non irritare i grandi fondi
internazionali con un cambio di ad a distanza di pochi mesi dall’ultimo
ribaltone. Poi si sarebbe fatto largo a un manager più vicino alla lobby che
lavora al fianco di Elliott da quando quest’ultimo ha deciso di entrare a piedi
uniti nel capitale della società telefonica. Una lobby che fa perno su Roberto
Sambuco, partner della Vitale & Associati e ha solide ramificazioni nel
sottobosco politico romano. Il manager in questione si chiama Luigi Gubitosi e
nella sua carriera è stato alla Fiat, a Wind, a Merrill Lynch Italia, alla Rai,
all’Alitalia e ora è considerato l’uomo giusto per flirtare con l’attuale
governo e realizzare quello che i suoi predecessori in Tim non sono mai
riusciti neanche a ipotizzare: un vero spezzatino della società. Per
massimizzare il ritorno finanziario degli investitori.
E’ questo infatti il mandato che Gubitosi
ha ricevuto da Elliott, dopo sei mesi nel ruolo di consigliere
d’amministrazione passati a mettere i bastoni tra le ruote ad Amos Genish,
l’israeliano che era stato scelto da Vivendi e che è riuscito nell’intento di
far crollare il titolo fino ai minimi storici, da 0,8 fino a 0,5 euro. Colpa
della concorrenza dei francesi di Iliad,
sbarcati nel Belpaese l’estate scorsa
con le loro offerte stracciate sul mobile, e colpa anche di Open Fiber che
cominciava a dare qualche fastidio anche sul fisso, dove la rete Telecom
regnava incontrastata da sempre. Ma ora si cambia e la concorrenza lascerà di
nuovo spazio al monopolio, almeno sull’infrastruttura di rete. Così vuole il
governo, consigliato dagli speculatori americani.
Gli addentellati di Elliott sono infatti
riusciti a stabilire un ponte romano con il governo gialloverde e convincerlo a
prendere il toro per le corna e obbligare Tim a separarsi dalla sua rete che
tanti profitti le ha portato nel corso degli anni. Elliott è salita al potere
sventolando la bandiera dello spezzatino e ora non può tirarsi indietro. Anzi è
già tardi, la sua credibilità presso la comunità finanziaria internazionale si
è già incrinata in questi mesi difficili e oggi non sarebbe più sicura di avere
il seguito dell’aprile scorso. Quindi giù con il pedale dell’acceleratore,
dentro Gubitosi al posto di Genish nella speranza che Di Maio non abbia capito
fino in fondo quello che gli stanno facendo fare.
L’operazione è ardita sia sotto il profilo
industriale che finanziario ma Gubitosi ha armi sufficienti al suo arco per
tentare l’impresa. Si tratta in primo luogo di vedere se passerà l’emendamento al
Dl fiscale presentato dai 5 Stelle venerdì scorso, visto che la Lega ancora non
si è espressa se non con un Salvini che dice che è meglio avere le reti che
trasportano dati sensibili in mani pubbliche. Forse si riferiva a Telecom
Sparkle che Genish aveva messo in rampa di lancio per la vendita. Poi con una
AgCom rafforzata di poteri al di là di ogni limite si dovrà stabilire la Rab,
cioé la remunerazione del capitale di una eventuale nuova rete unica, frutto
dell’unione forzata di Tim e Open Fiber.
Una volta saputo il prezzo a cui lo Stato,
attraverso le bollette degli utenti, è disposto a pagare per avere una rete
unica, si metteranno in moto le trattative tra azionisti per autorizzare lo
scorporo, e le sue modalità. Più alta è la Rab, più sarà conveniente per
azionisti e obbligazionisti consegnare la rete Tim in mano allo Stato padrone,
più sarà pesante il salasso per i consumatori che si troveranno a sopportare
prezzi di accesso a Internet più alti rispetto a quelli di oggi. Più lavoratori
e più debito potranno essere trasferiti dalla Tim di oggi alla società della
rete di domani. Ma per definire quel numerino è possibile si debba aspettare
fino all’estate prossima, quando dovranno essere nominati i nuovi vertici
dell’AgCom, più in linea con i governanti di oggi.
Ma non è detto che Tim arrivi a quel
momento nell’attuale configurazione. D’altronde dal 2014 a oggi si sono
avvicendati ben quattro diversi amministratori delegati. Prima Marco Patuano
che con Telefonica al comando raccolse il testimone da Franco Bernabé, poi
Flavio Cattaneo, mister 25 milioni di buonuscita per soli 14 mesi di gestione
sanguigna, quindi Genish, l’uomo che aveva fatto ricco Vincent Bolloré con la
vendita di Gvt agli spagnoli di Telefonica. E Gubitosi potrebbe durare ancor
meno se è vero che Vivendi non aspetta altro di chiedere la convocazione di una
nuova assemblea per andare alla conta con Elliott, nella convinzione che i
fondi internazionali tornino a scommettere sull’azionista di lungo periodo
invece che sul fondo speculativo che al momento non è stato in grado di fornire
il guadagno di breve termine.
Nel mezzo però c’è sempre la Cdp,
incuneatasi tra gli azionisti forti a inizio 2018 e risultata determinante per
la vittoria in assemblea. Se la Cdp, come presumibile, rema insieme al governo,
non sarà facile per Bolloré tornare in sella alle telecomunicazioni italiane.
Se la Rab fosse generosa forse anche il finanziere bretone potrebbe abbozzare e
acconsentire allo scorporo della rete che gli farebbe recuperare un bel po’ di
denari. Ma fino ad allora la sua posizione sarà sempre all’opposizione, per
cercare di ottenere il massimo possibile.
Insomma, una situazione più complicata di
questa per Tim è difficile da ricordare, sebbene gli ultimi vent’anni l’azienda
sia stata immersa in un eterno frullatore. Dalla privatizzazione in poi non c’è
più stata pace per la società telefonica passata sotto l’Opa dei capitani
coraggiosi, alla Pirelli, alle banche e a Telefonica, a Vivendi e al fondo
Elliott. Sempre con lo spauracchio di un nuovo ribaltone all’orizzonte per
accontentare l’azionista di turno.
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