da: Corriere della Sera
Rosi
vince l’Orso d’oro
Il
successo di “Fuocoammare”
Il
documentario sul dramma dei migranti a Lampedusa e sul difficile rapporto degli
abitanti dell’isola con i nuovi arrivati ha commosso fin dalla prima
proiezione. Il regista: Questo film non è un’inchiesta, è politico a
prescindere. E richiama l’Europa alle sue responsabilità, forse per questo ha
avuto un impatto così forte»
di Valerio
Cappelli
Ha vinto la Bell’Italia di Gianfranco Rosi,
l’Orso d’Oro della Berlinale va a «Fuocoammare»: il dramma dei migranti, il
cuore grande di Lampedusa. «Dedico il premio a tutte le persone che non sono
riuscite ad arrivare su quest’isola nel loro viaggio della speranza, e ai
lampedusani che dai primi sbarchi del 1991 accolgono chi scappa dalla fame e
dalle guerre. È un posto di pescatori che accetta tutto quello che viene dal
mare. Una lezione che dovrebbe essere imparata da tutti. Non è accettabile che
la gente muoia in fuga dalle tragedie».
Meryl Streep dice che tutta la giuria da
lei presieduta è rimasta «commossa da questo film che unisce politica e arte, e
rappresenta tutto ciò che è il Festival di Berlino». È il palcoscenico ideale
per il grido di dolore di Rosi, che ha sbancato con quattro premi: all’Orso
d’oro vanno aggiunti quello ecumenico, quello di Amnesty International, e
quello dei lettori del Morningpost. Gran premio della giuria a Danis Tanovic
(«Death in Sarajevo»), miglior regista Mia Hansen-Love («L’avenir»). Miglior
attrice Trine Dyrholm («The Commune»), miglior attore Majd Mastoura («Hedi»).
Rosi,
una giornata che non dimenticherà facilmente.
«Sì, nel pomeriggio, dopo i primi tre
riconoscimenti, mi era venuta l’ansia. Questo film non è un’inchiesta, è
politico a prescindere. E richiama l’Europa alle sue responsabilità, forse per
questo ha avuto un impatto così forte. Per vent’anni l’Italia ha dovuto gestire
gli sbarchi dei migranti in totale solitudine».
Le
cose sono cambiate perché il quadro è mutato.
«Solo ora, con le masse di persone che si
stavano muovendo, gli altri Paesi europei si sono accorti che esiste il
problema. Quello che sta accadendo alle frontiere dell’Austria è vergognoso. Ci
sono confini fisici e mentali. Se l’Europa non fa i conti con una politica
sovranazionale sarà la fine di tutto».
Come
ha costruito il film?
«Ci sono due storie parallele, l’isola e le
migrazioni, e non si incontrano mai. È difficile creare un rapporto: oggi i
migranti vengono fatti sbarcare di notte, salire su un autobus, accompagnati al
centro di accoglienza. E dopo due-tre giorni vanno in altre destinazioni».
L’occhio
pigro del protagonista, il piccolo Samuele, è la metafora della nostra pigrizia
sui rifugiati?
«È piccolo, l’abbiamo portato fuori durante
la scena dei morti. A quel momento lo spettatore deve arrivare attraverso il
mondo interiore di Samuele, deve conquistarla quell’immagine. Quando lui va con
la torcia nella natura è la metafora della fiaba, è il suo romanzo di
formazione: la sua difficoltà a crescere, e la nostra difficoltà a cogliere
quella realtà. Samuele mi ha detto che dopo essersi visto nel film non mangia
più gli spaghetti tirandoli su ad uno ad uno facendo rumore».
Paolo
Taviani dice che lei ha una capacità alla Antonioni per le sequenze lunghe.
«Sono lusingato e imbarazzato… I tempi dei
miei film sono quelli dei miei personaggi: so dove partono ma non so dove arrivano.
Sono incontri con luoghi che poi si riflettono nei personaggi, e più la storia
aderisce alla loro intimità, più è profonda, e più facilmente può raggiungere
la verità».
Non
filtra mai un raggio di sole.
«Tutti i miei film sono così, o interni, o
esterni con le nuvole. L’ultima luce del giorno ti dà supporto per il mistero
delle cose».
Ha
vinto anche la nobiltà della causa?
«Solo sei mesi fa sarebbe stato colto in
maniera diversa. Non ho voluto dare soluzioni. Dopo le immagini di una tragedia
che ho visto e che nessuno ha raccontato, perché era Ferragosto, ho avuto una
rottura emotiva, mi sono detto che il film andava consegnato. La morte mi è
arrivata addosso».
Dopo
Venezia (Sacro Gra, 2013), questi premi a Berlino con un altro documentario.
«Fortunatamente non c’è più l’idea punitiva
del film-inchiesta. Io comunque uso il linguaggio del cinema»
A
quale politico vorrebbe far vedere il film?
«A tutti. Ma soprattutto a quello
“cattivo”, Matteo Salvini».
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