da: http://www.linkiesta.it/it/
Solo
il 15% dei ricavi di Poste italiane riguarda servizi postali. Come per le
stazioni ferroviarie, il gioco è acquistare una cosa per trasformarla in un’altra.
Sfruttando la rete immobiliare
Inizia oggi l’ampiamente pubblicizzato collocamento
in Borsa delle azioni di Poste Italiane: le attese degli operatori sono per
un’offerta che sarà largamente sottoscritta da correntisti postali e bancari.
Ma qualcuno ha veramente guardato di cosa
si occupa Poste Italiane, oggi?
Erano i primi anni del nuovo millennio,
l’era dorata degli hedge funds: fondi – tipicamente di matrice anglosassone -
che utilizzando strategie di investimento sofisticate garantiscono ai propri
investitori performance superiori alla media, proteggendoli nelle fasi di
ribasso dei mercati.
Tra le varie strategie che li hanno
contraddistinti, la più spregiudicata era l’activist investing: banalmente, la
strategia consiste nel raccogliere sul mercato un numero di azioni sufficienti
per avere la maggioranza dei diritti di voto di una società; in seguito
proporre e far sedere i propri esponenti nel consiglio di
amministrazione della
società stessa e di fatto imprimere una nuova linea strategica al business,
linea che ovviamente abbia un occhio di riguardo proprio per gli azionisti.
Ecco cosa significa investire attivamente: investire così tanti capitali in
un’azienda da influenzarne l’indirizzo strategico.
Gli oppositori più feroci definivano i
fondi impegnati in questa strategia “fondi locusta”: la massimizzazione del
valore per gli azionisti poteva infatti passare talvolta da ciniche decisioni
strategiche di breve termine volte a spolpare l’osso nel minor tempo possibile,
evitando quindi qualsiasi tipo di dialogo con le parti coinvolte (sindacati in
primis) e segnando la redditività futura della società stessa.
Ma questa è sempre stata la Finanza: non è
certo Filantropia.
“Chi
sottoscrive oggi le azioni delle Poste Italiane fa come i fondi che acquisivano
le società ferroviarie: comprare una cosa per averne un’altra”
Uno dei temi più interessanti per tale
strategia, in quel periodo, furono le società ferroviarie americane.
Non era interessante la redditività di tali
compagnie, specie in Paesi dove un’efficiente sistema di trasporto aereo già
garantiva la copertura di tutte le tratte. E non era neppure interessante il
valore dei treni stessi, spesso usurati e ancora alimentati a gasolio, né era
in previsione un aumento del numero dei passeggeri per gli anni futuri.
Ma le società avevano qualcosa di unico: le
stazioni e i binari. Le stazioni, per definizione, sono nelle zone centrali
della grandi città. Così come i terreni sui cui poggiano i binari per
raggiungerle! Quanto può valere la Grand Central Station nel cuore di
Manhattan? E come mai nel bilancio delle società le proprietà degli immobili e
dei terreni era ancora iscritta al valore storico di poche migliaia di dollari?
La strategia era molto semplice: pagare le
società come società ferroviarie, ma “estrarre” il valore dal patrimonio
immobiliare; magari vendendo direttamente gli immobili, magari separando gli
immobili in una nuova società.
L’esempio venne presto imitato: anche oggi
in Italia, le società Grandi Stazioni e Centostazioni – parte del gruppo
Ferrovie dello Stato – hanno come obiettivo la “valorizzazione commerciale e
pubblicitaria degli asset delle stazioni appartenenti al proprio network”.
Ovvero la valorizzazione delle stazioni più interessanti appartenute alle
mitiche “Fs”.
In pratica, tornando alla strategia, io
compro una cosa per averne un’altra. Questo è ciò che sta facendo chi
sottoscrive oggi le azioni delle Poste Italiane. Ma inconsapevolmente.
Sgombriamo
subito il campo: Poste Italiane non è una società postale.
Basta andare sul sito delle Poste, alla
voce “Azienda”:
“Poste
Italiane è la più grande infrastruttura di servizi in Italia. Grazie alla
presenza capillare su tutto il territorio nazionale, ai forti investimenti in
ambito tecnologico e al patrimonio di conoscenze rappresentato dai suoi 142mila
dipendenti, Poste Italiane ha assunto un ruolo centrale nel processo di crescita
e modernizzazione del Paese”.
Oggi fornisce servizi logistico-postali, di
risparmio e pagamento, assicurativi e di comunicazione digitale a oltre 32
milioni di clienti”.
Pochi, semplici concetti: infrastruttura di
servizi, presenza capillare.
Questa è stata la genialità di Massimo
Sarmi: trasformare il pachiderma risanato da Corrado Passera in una società
macina utili attraverso l’ingresso nel settore bancario-assicurativo,
sfruttando la diffusione e la centralità degli uffici postali insieme alla
presenza di una clientela “naturale” (pensionati e buoni postali people).
Nel 2014 il gruppo Poste Italiane ha
realizzato ricavi per circa 28,5 miliardi di euro.
Spedendo lettere?
No.
Consegnando pacchi?
No.
Beh, allora saranno le raccomandate.
No.
Corriere espresso?
No.
Filatelia/Logistica/telegrammi…
No!
I servizi
postali e commerciali sono ad oggi solo il 15% dei ricavi del Gruppo.
Due terzi dei ricavi del gruppo derivano
dai servizi assicurativi (Poste Vita), e il 20% dai servizi finanziari (conti
correnti, PostePay, Buoni Postali…).
Perciò l’85%
del business di Poste Italiane è a contenuto finanziario, mentre solo il 15% è relativo al business
che ne ha determinato la nascita e dato il nome. Quindi, come dicevamo, le Poste non sono Poste.
In altre parole, se i più grandi gruppi
bancari offrissero il servizio di spedizione lettere e pacchi, sarebbe
impossibile distinguerli.
In definitiva, chi parteciperà a questa operazione non sta scommettendo sulla
redditività dei servizi di consegna lettere e pacchi, ma sulla sostenibilità di un modello di business basato sul
collocamento di prodotti finanziari negli uffici postali.
Come
investitore, rimangono allora due domande da farsi:
- sono consapevole che sto sottoscrivendo
azioni di una bancassicurazione (che spedisce anche lettere e pacchi a tempo
perso)?
- le Poste sono passate da spedire pacchi a
proporre investimenti: il salto mortale carpiato con avvitamento avrà coinvolto
anche le professionalità dei propri dipendenti?
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