È
sbagliato mitizzare il passato, perché i cibi erano inaffidabili e pericolosi.
E il concetto di “naturale” è più culturale che scientifico. A tutto vantaggio
del marketing
di Cristina
Tognaccini
«È stato detto, dimostrato e ribadito in
quasi tutte le salse che non c’è niente di più culturale dell’idea di natura.
Nondimeno ci sono altrettante prove del fatto che non c’è niente di più
difficile da sradicare dell’idea che esistano situazioni che sono per
definizione naturali o più naturali di altre. Un’idea che in sé non avrebbe
nulla di problematico se non viaggiasse sempre in compagnia, per motivi che
dipendono anche dalla nostra natura, del pregiudizio per cui ciò che è
considerato “naturale”, in quanto tale viene giudicato più “buono”, più
“giusto”, più “sano” e più “sicuro». A scriverlo è Gilberto Corbellini, storico
della Medicina, studioso di Bioetica ed Epistemologia Medica, nel suo saggio “Perché gli scienziati non sono pericolosi”.
Insomma siamo davvero sicuri che esista una
differenza tra ciò che è naturale, e ciò che viene considerato artificiale? E
ancora, siamo sicuri che sia più sicuro e sano? A chiederselo è Dario
Bressanini, un chimico e ricercatore
dell’Università degli studi dell’Insubria,
che per Le Scienze cura il blog Scienza in Cucina, dove da diversi anni ha intrapreso una
crociata contro questo mito da sfatare. Da chimico, Bressanini sottolinea come
una qualsiasi sostanza in natura sia composta da atomi legati tra di loro. Che
questa sia estratta da una pianta o riprodotta in laboratorio, il risultato non
cambia, otterremo sempre la stessa sostanza con la stessa formula chimica. Che
differenza c’è allora tra le due? Tanto per fare un esempio, la vitamina C che
si trova in farmacia è sì naturale, nel senso che “l’ha inventata” la natura
perché si trova negli agrumi, ma quella contenuta nelle pasticche deriva da un
processo industriale. Ma questo non implica che sia diversa, meno efficace o
tossica per questo motivo.
«Per un chimico una “sostanza naturale” è
una molecola che già esiste in natura e viene prodotta da qualche processo o
organismo» scrive Bressanini nel sul blog.
«Se io poi ne faccio la copia identica in laboratorio è ancora la stessa
“sostanza naturale”. In altre parole, chi ha effettivamente costruito la
molecola, sia esso un chimico in laboratorio o un complesso ciclo metabolico di
una pianta, non ha assolutamente influenza sulle sue proprietà. Ed è una
fortuna che sia così, perché molte sostanze chimiche utili che si trovano
in natura sono di difficile estrazione, o molto rare, o troppo costose da
separare dalle altre molecole. Per molte persone invece una molecola è
“artificiale” se proprio quella molecola lì è stata sintetizzata in
laboratorio, anche se è assolutamente indistinguibile da quella prodotta per
esempio da una pianta».
Non solo, il concetto di sano, buono e
innocuo, che spesso si associa a quello di “naturale” non sempre è così
veritiero. In natura ci sono anche molte sostanze da evitare o che possono
essere tossiche e pericolose, soprattutto a seconda della dose in cui si
assumono. Il metileugenolo per esempio, naturalmente presente nelle piantine
ancora piccole del basilico genovese come forma di difesa, in alcuni
esperimenti sui topi si è dimostrato cancerogeno. Ma in quantità di gran lunga
superiori alla dose che assumiamo tipicamente mangiando il pesto. Così come le
idrazine presenti nei funghi, l’allil isotiocianato nella senape e così via.
«Assumiamo migliaia di sostanze tossiche o potenzialmente tossiche, con cui il
nostro corpo ha a che fare ogni giorno per limitare i danni» sottolinea Bressanini.
«Sostanze, ci tengo a sottolinearlo, che sono naturalmente presenti negli
alimenti. La questione, come ben argomentava Paracelso, è in quale dose
assumiamo queste sostanze. E questo anche mangiando i proverbiali manicaretti
della nonna preparati con prodotti coltivati nel proprio orto e con animali
allevati nella fattoria di Nonna Papera».
È anche vero che a volte il marketing
sfrutta il concetto di naturale a proprio vantaggio, veicolando messaggi
fuorvianti. Come il caso di una famosa mortadella sulla cui etichetta si poteva
leggere “100% naturale, solo ingredienti naturali (senza conservanti e
antiossidanti di origine chimica)”. Il che fa pensare che non siano presenti
conservanti di origine chimica come i nitriti, aggiunti per evitare il rischio
di botulino e percepiti come qualcosa di negativo. «Ma se si va a vedere
l’etichetta», raccontava Bressanini durante il convegno “Nel piatto di
domani”, svoltosi lo scorso anno «c’è
scritto che contiene “conservanti (nitrito di sodio) di origine naturale”. In
realtà il conservante c’è, e non potrebbe essere altrimenti, ma vogliono
sfruttare questa idea di naturale. Visto che tra gli ingredienti compare il
sedano, che non è l’ingrediente della mortadella ma è uno dei vegetali che
assorbe più nitriti e nitrati dal terreno, se io dovessi inventarmi una
giustificazione di questo tipo, potrei coltivare del sedano che assorbe tanti
nitrati e nitriti, per poi farci un estratto e aggiungerlo alla mortadella. In
questo modo aggiungo anche i conservanti, ma sono di origine “naturale”».
Allargando il discorso ai piatti che
mangiamo ogni giorno, da diverso tempo si è radicata l’idea che il
tradizionale, il naturale, il chilometro zero è meglio. In controcorrente con
la frenesia che impone la società moderna, per cui spesso si mangiano cibi già
pronti e confezionati. Il concetto di fast e moderno contro
lo slow food e il ritorno al passato insomma. Anche su questo però
c’è chi la pensa in maniera diversa, e se vogliamo un po’ controcorrente. In un articolo pubblicato su Jacobin Magazine, e ripreso poi
da Internazionale, Rachel
Laudan, una storica britannica dell’alimentazione, spiega come «la moda del
cibo naturale non ha basi storiche. Perché se oggi possiamo mangiare di più con
meno lavoro è merito dei metodi di produzione moderni». Insomma il tanto ricercato
e desiderato ritorno la passato, quando si mangiava in maniera “più sana” è un
mito da sfatare, perché non è andata esattamente così. Anche in passato i
problemi c’erano ed erano diversi.
Laudan insomma va contro quelli che lei
chiama i “luddisti culinari” – perché assomigliano agli operai inglesi del
primo ottocento che accusavano le macchine di distruggere il loro stile di vita
– che disprezzano il cibo industriale e raccontano un mondo passato
“fantastico” che in realtà non è mai esistito se si va a scavare. «In passato
non tutto ciò che era naturale era buono» scrive. «La carne fresca era dura e
maleodorante; il latte era tiepido ed era chiaramente un’escrescenza corporea;
la frutta era così aspra da essere immangiabile e le verdure fresche erano amare.
Il cibo naturale era anche inaffidabile: il pesce cominciava subito a puzzare,
il latte diventava acido, le uova marcivano. Spesso era anche indigeribile e
tossico».
Per questo negli anni i nostri antenati
hanno inventato una serie di trattamenti, strategie e metodi, per renderlo più
buono, digeribile e mangiabile. Senza contare che il concetto di fast
food era già presente al tempo dei romani – che mangiavano focacce al
miele e salsicce già pronte al mercato – e in generale in tutte le società. Ovunque
infatti c’era bisogno di qualcosa da mangiare velocemente e lontano da casa
quando si stava via per lavoro. «Oggi ci preoccupiamo dei pesticidi sulle mele,
del mercurio nel tonno, del morbo della mucca pazza – scrive ancora Laudan – ma
ci dimentichiamo che ingerire cosa da mangiare è sempre stato pericoloso. Molte
piante contengono tossine e sostanza tossiche, in passato l’acqua a volte era
inquinata e causava malattie intestinali, il pane conteneva gesso per
aumentarne il volume, il latte era un veicolo di malattie e le salsicce
venivano riempite di porcherie. Con il modernismo culinario insomma la gente ha
ottenuto alimenti trattati conservati, rapidi e diversificati. Dove è arrivata
l’alimentazione moderna le popolazioni sono diventate più alte, più forti, meno
a soggette a malattie e più longeve. Gli uomini hanno potuto scegliere di non
lavorare nei campi e le donne hanno smesso di passare cinque ore al giorno a
fare il pane».
Ovviamente c’è sempre un retro della
medaglia e non possiamo negare che il cibo industriale con cui abbiamo a che
fare oggi non sia perfetto o non abbia i suoi problemi, come sottolinea la
stessa Laudan, che aggiunge che probabilmente ci farebbe anche bene mangiare
più prodotti freschi, naturali, locali, artigianali. Quello che è
sbagliato a suo parere è il mitizzare il passato, un passato che appunto è ben
diverso da quello che raccontano i “luddisti culinari”. «Quello che serve non è
la nostalgia, ma un’etica – conclude Laudan – che accetti gli alimenti
industriali invece di disprezzarli, che non abbia pregiudizi ma decida caso per
caso quando è meglio preferire il naturale al trattato, il fresco al
conservato, il vecchio al nuovo, il lento al veloce, l’artigianale
all’industriale».
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