da: Il Fatto Quotidiano
Se quella di Roma fosse soltanto la
tragedia di un uomo ridicolo – Ignazio Marino detto Ignaro – si potrebbe
liquidarla con una grassa risata e passare oltre. Invece è la tragedia non solo
di un’intera città, incidentalmente la capitale d’Italia, ma anche di un intero
sistema di potere che davanti, dietro e intorno al sindaco ha mostrato tutto il
suo plateale, catastrofico, definitivo fallimento. Marino paga colpe sue e altrui. La sua storia di chirurgo-marziano
nato a Genova da madre svizzera e padre siciliano, vissuto in Inghilterra, in
America, a Palermo e incidentalmente a Roma, faceva comodo a tutti nel 2013,
quando Alemanno lasciava la Capitale come neanche Nerone.
E il Pd, tanto per cambiare, non sapeva chi
candidare. Il centrosinistra montò su quel taxi intestandoselo come “società
civile” e riuscendo a nascondere il suo pedigree politico di uomo di D’Alema
(in Parlamento e alla fondazione Italianieuropei) sposato dalle correnti che
spadroneggiano in città: dalemiani, veltroniani (vero Bettini?), rutelliani,
zingarettiani ben contenti di rifilare all’allegro chirurgo il cetriolo di una
città già morta e fallita.
Anche i boss di Mafia Capitale dissero che
col marziano un gancio si trovava, nella vecchia politica che gli stava dietro
e nell’apparato burocratico che non muore mai. I palazzinari che controllano la
stampa capitolina ci giocavano come
con i pupazzi: lo coccolavano quando
assecondava i loro interessi e lo infilzavano con gli spilloni quando li
ostacolava.
Scandali e scandaletti si gonfiavano e si
sgonfiavano a seconda delle convenienze del momento. Dieci mesi fa, quando
scattò la prima retata di Mafia Capitale, si discuteva delle multe della sua
Panda. Tutto perché lui non obbediva al Pd e ai poteri retrostanti. Poi si
scoprì che il guaio non era la Panda, ma la Banda. Della Magliana. Il Pd ci era
dentro fino al collo, come il centro e la destra: ma si salvò grazie a lui, che
non s’era accorto di nulla ed era persino credibile, come Ignaro, perché era
appena arrivato. Così Matteo Orfini –il transformer ex dalemiano, ex
bersaniano, ora renziano che il Pd romano lo conosce come le sue tasche fin
dalla più tenera età e dunque non può fare lo gnorri –gli montò in groppa in
veste di commissario moralizzatore facendosi bello dell’altrui ignaritudine.
Marino, che fino al giorno prima attendeva l’avviso di sfratto dal Pd, iniziò a
sentirsi onnipotente e a comportarsi come tale.
Per il sol fatto di non prendere mazzette,
si autoconvinse di essere un gran sindaco, inamovibile e indispensabile. Si
fece persino l’idea di averli fatti lui, gli arresti: così, mentre ogni mese
gli portavano via un pezzo di giunta, di maggioranza e di opposizione, sfilava
davanti alle telecamere con le dita alzate a V come vittoria. Renzi cominciò ad
attaccarlo, come se spettasse a un premier mai votato sfiduciare un sindaco
eletto dal popolo. Poi gli spiegarono che cacciarlo subito significava votare
in autunno, alla vigilia del Giubileo, e con la certezza di perdere contro un
5Stelle qualsiasi. Così toccò a Orfini Transformer tornare a difendere Marino e
prestargli alcuni assessori di stretta osservanza: uno di Moncalieri, una di
Gaeta, uno di Palermo e il vicesindaco palermitano Causi, già disastroso
assessore al Bilancio di Veltroni.
Il resto lo fa la standing ovation alla
festa dell’Unità col give me five della Boschi: mentre Roma continua a non
governarla nessuno, Marino cade preda della sindrome del presidente francese
Paul Deschanel: quello che nel 1920 all’Eliseo si arrampicava sugli alberi,
nuotava nel laghetto con le papere e pescava le carpe a mani nude, cadeva giù
dai treni, firmava le leggi con la N di Napoleone o la V di Vercingetorige,
finiva i discorsi in piazza e se l’applaudivano li rileggeva da capo, riceveva
gli ambasciatori in déshabillé indossando solo il cordone della Legion d’Onore.
Ignaro, finge di non vedere che il Pd l’ha
di nuovo scaricato con la pantomima della badante Gabrielli e la scusa delle
sue vacanze in America (come se non fossero un suo diritto e se la sua presenza
a Roma potesse evitare il funeral show Casamonica). E porta acqua al mulino dei
suoi accusatori tornando negli Usa. Millanta inviti vaticani, ma il Papa
smentisce. Dice che la trasferta è gratis, ma si scopre che è costata al Comune
20 mila euro. E quando i 5Stelle e il Fatto tirano fuori le spese
“istituzionali” con la carta di credito del Comune, minaccia querele, grida al
complotto, poi racconta cene mai avvenute con giornalisti, direttori sanitari,
ambasciatori vietnamiti, preti, rappresentanti di Sant’Egidio e della World
Health Organization.
Il problema non è penale, a dispetto dei
tartufi renziani che si tengono tre inquisiti al governo e il condannato De
Luca in Campania e usano contro Marino l’indagine dovuta della Procura sulla
denuncia M5S. E nemmeno morale: se fosse un ladro, Marino non ruberebbe 20 mila
euro a cena, con tutti i milioni che gli passano sotto il naso. È politico: un
sindaco inefficiente e pure sospettato di aver mentito, visto che nessuno
ricorda più di aver cenato con lui. Un po’ come il Pd e Sel, che non ricordano
di averlo candidato e difeso anche quand’era indifendibile (“parliamo di
politica, non di scontrini” salmodiava Orfini ancora l’altroieri). Un po’ come
il centrodestra, che dimentica di aver fatto molto peggio. E un po’ come molti
dei 664.490 romani che due anni fa l’hanno eletto e ora sono pronti a
lapidarlo. La foglia di fico s’è strappata, bisogna inventarne un’altra.
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