da: http://www.glistatigenerali.com/
-di Francesca Mandelli
Viviamo negli anni della moda del vintage,
affolliamo i mercatini hipster di tutta Europa per accaparrarci l’occhiale anni
sessanta e la vecchia lampada che fa tanto radical chic, ma non rinunciamo
all’ultima versione dell’Iphone sbarazzandoci di quello comprato sei mesi
prima, perché lo troviamo già obsoleto o perché ripararlo se necessario ci
costa troppo.
Secondo Legambiente, in Italia produciamo
800 mila tonnellate di rifiuti elettronici ogni anno, spesso peraltro smaltiti
illegalmente. L’associazione ci racconta che solo nel 2012 almeno la metà dei
televisori sostituiti funzionava correttamente.
Ma combattere la “cultura di consumo usa e
getta”, a favore di un’economia sostenibile basata sul riuso, si può?
Negli Stati Uniti il dibattito sull’industria
delle riparazioni e del ridimensionamento collettivo dei consumi ha coinvolto e
continua a coinvolgere
l’opinione pubblica grazie alla nascita della Repair
Association, la lobby dei riparatori, che, opponendosi alle politiche delle
multinazionali, promuove la filosofia del riciclo e sostiene imprenditori e
consumatori che preferiscono aggiustare un bene piuttosto che buttarlo e
sostituirlo. Secondo la lobby, solo negli Usa, ci sarebbero circa tre milioni
di professionisti capaci di riparare oggetti, e il loro lavoro avrebbe permesso
di recuperare moltissimi prodotti destinati alla rottamazione, dando supporto
all’economia dei piccoli imprenditori.
La missione della Repair Association è in
sintonia con quella che viene definita economia circolare, e di cui si discute
da tempo anche a livello europeo. Il modello dell’economia circolare è
incentrato sulla sostenibilità del sistema, nel quale non sono previsti
prodotti di scarto e in cui le materie vengono costantemente riutilizzate al
fine di creare valore. Si tratta di un sistema completamente opposto a quello
chiamato lineare, che parte dalla materia e arriva al rifiuto.
In Europa, a tal proposito, dopo la
direttiva Ue Ecodesign, pensata per il risparmio energetico ma anche per
garantire standard di durata e riparabilità dei prodotti, la Commissione
europea già nel dicembre 2015 ha adottato un pacchetto di misure proprio
sull’economia circolare per promuovere la transizione verso questo tipo di
economia.
Il piano d’azione stabilisce misure che
affrontano tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto: dalla produzione al
consumo, fino alla gestione dei rifiuti e al mercato delle materie prime
secondarie. Una migliore progettazione del prodotto, secondo la Comunità, è
fondamentale per facilitare il riciclaggio e consentire la fabbricazione di
prodotti più facili da riparare o più durevoli, risparmiando così risorse
preziose. Per questo tra gli obiettivi c’è proprio quello di sostenere la
riparabilità e il riciclo ma anche incentivare i produttori affinché realizzino
prodotti con queste caratteristiche, combattendo l’obsolescenza programmata.
Di obsolescenza programmata si discute
dagli anni ’90 ed è quella strategia mediante la quale un produttore immette
sul mercato un bene sapendone già la durata, quasi sempre breve, e che quindi
sarà inservibile o diventerà vecchio agli occhi di chi lo possiede. Quando
l’unico accorgimento per rendere un oggetto obsoleto prima del tempo è la
pubblicità, si parla di obsolescenza percepita o simbolica. Pensiamo alla
durata dei nostri smartphone, oppure ai nostri televisori hd.
E se in Francia l’obsolescenza programmata
è diventata un reato grave che prevede due anni di carcere e una multa di
300mila euro e in Germania è stata creata certificazione per garantire una
longevità minima degli apparecchi, l’Italia è ferma in materia. Nel nostro
Parlamento giacciono infatti tre proposte di legge presentate alla Camera dal
Pd, con Luigi Lacquaniti , da Sinistra italiana-Sel con Lara Ricciatti e dal
Movimento 5 Stelle con Ivan Della Valle.
Le tre proposte italiane sono basate sulla
tutela del consumatore, tutelando di conseguenza anche l’ambiente, e sempre per
il motivo secondo cui se un prodotto dura di più è meglio per noi ma
soprattutto per l’ambiente. Ma come? Con un garanzia di prodotto che arrivi ai
dieci anni nel caso si tratti di ingombranti e che passi dai due ai cinque anni
per gli altri; con la sicurezza di trovare pezzi di ricambio fino a quando il
prodotto si troverà sul mercato e per i cinque o setti anni successivi; attraverso
la possibilità di riparare i beni a prezzi accessibili per non essere costretti
a comprarne di nuovi “che tanto conviene”. Ma non è tutto. La proposta dei 5
Stelle, per esempio, prevede anche ispezioni durante la produzione, nei
magazzini di stoccaggio e nei punti di vendita per verificare che i prodotti
rispettino le nuove norme. Le multe possono arrivare fino ai 500mila euro.
Nessuna delle proposte è però stata finora
approvata. L’unico passo avanti compiuto dal Paese è stato l’approvazione della
Legge 19 agosto 2016 n. 166 con la finalità di ridurre gli sprechi per ciascuna
delle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di
prodotti alimentari, farmaceutici.
Ma c’è anche chi nell’ambientalista Europa
del nord propone progetti fondati sull’economia comportamentale e la teoria dei
nudge, secondo cui rinforzi positivi e aiuti indiretti possono influenzare i
motivi e gli incentivi che fanno parte del processo di decisione di gruppi e
individui. Si tratta della Svezia.
Su iniziativa dei Verdi, infatti, lo scorso
autunno è stata presentata al Parlamento svedese una proposta di legge che
prevede sgravi fiscali a chi sceglie di riparare televisori, bici, o un
semplice paio di scarpe. Lo scopo è quello di incentivare la riparazione degli
elettrodomestici, invece che la rottamazione e l’acquisto di prodotti nuovi,
per provare a ridurre le emissioni di gas serra provocate dai consumi
eccessivi. La proposta di legge da un lato taglia dal 25% al 12& l’Iva
sulla riparazione di bici, vestiti, scarpe; dall’altro permette di scaricare
dall’imposta sul reddito le spese per la riparazione di elettrodomestici.
L’introduzione di una chemical tax, inoltre, coprirà i costi di smaltimento dei
prodotti danneggiati o obsoleti che vengono sempre più velocemente abbandonati.
In Europa è la prima volta che si parla del
tema in questi termini, e secondo Per Bolund, ministro delle Finanze, sarà
anche l’industria delle riparazioni a guadagnarci, non soltanto l’ambiente, con
la possibilità di creare nuovi posti di lavoro a livello locale.
E mentre in Italia aspettiamo che in un
modo o nell’altro si promuovano politiche contro la cultura di consumo usa e
getta, a favore di economia sostenibile che incoraggi uno sviluppo che
salvaguardi società e ambiente, c’è anche scrive e parla di decrescita felice,
ed è fermamente convinto che si dovrebbe abbandonare l’idea che il benessere
delle persone aumenti di pari passo con il Pil del paese, quindi con la
continuativa crescita di produzione e consumo di merci. Maurizio Pallante,
presidente emerito del Movimento per la Decrescita Felice, sul suo blog scrive
che “per contrastare l’aggravamento progressivo della crisi ecologica e
impedirne un esito disastroso occorre capovolgere il dogma della crescita su
cui si fondano le economie delle società industriali e avviare un’economia
della decrescita agendo su due leve”. E cioè “un progresso tecnologico
finalizzato ad accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, in particolare
quelle energetiche, al fine di ridurne il consumo a parità di servizi; e un
mutamento degli stili di vita al fine di liberarsi dai comportamenti coatti
indotti dal consumismo, dalla dipendenza assoluta dal mercato recuperando le
capacità di autoproduzione, dalla chiusura individualistica recuperando i vantaggi
di rapporti fondati sul dono e la reciprocità”.
Comunque la si pensi, oltre alla riduzione
di emissioni che influenzano il clima, la nuova sfida è quella contro i
consumi, perché gli stessi consumatori sono e devono essere attivi nel
cambiamento dell’impatto ambientale, e probabilmente gli incentivi da modello
svedese possono essere un buon punto di partenza.
Nessun commento:
Posta un commento