da: Il Fatto Quotidiano
Etruria
& C., il costo del salvataggio scaricato sui clienti
Unicredit, Banco Popolare, Ubi e Pop Bari scaricano
tutto sui correntisti
di Marco
Maroni
Si potrebbe definire un “bail out”
camuffato, o una specie di prelievo patrimoniale: le banche italiane, senza far
troppo rumore, stanno scaricando sui correntisti il peso degli istituti in
crisi salvati. I costi delle crisi bancarie sono andati fuori controllo. E le
banche cercano di fare cassa scaricandoli sui clienti.
Il salvataggio delle banche locali di
Etruria, Ferrara Marche e Chieti è costato al sistema 3,6 miliardi, quasi
altrettanti ne sono stati messi nel fondo Atlante, quello che ha
ricapitalizzato le dissestate Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ma le cui
partecipazioni nei bilanci bancari ora devono essere svalutate perché le due
banche venete continuano a perdere. Il risultato è che gli istituti italiani,
gravati dal fardello, si rifanno sui clienti. E così i salvataggi, che il
governo aveva assicurato sarebbero stati fatti “senza soldi pubblici”, sono fatti
anche con i soldi dei clienti bancari che man mano lo stanno scoprendo.
L’ultimo istituto ad aver messo la gabella
salva-banche, in ordine di tempo, è stato il gruppo Popolare di Bari. Con una
lettera inviata ai clienti della controllata Tercas a fine dicembre, si avvisa
che dal primo aprile (anche la data non è delle più azzeccate) le “spese per
conteggio interessi e competenze”,
avranno un aumento di 6 euro a trimestre.
Sono 24 euro l’anno di aumento, motivati dalla banca proprio con il contributo
al Fondo di risoluzione unico per le crisi bancarie.
Le norme europee, entrate in vigore in
Italia il primo gennaio 2016, impongono che la crisi di una banca sia risolta
prima di tutto con risorse della stessa banca e dei suoi clienti, sacrificando
azionisti, obbligazionisti (a partire dalle obbligazioni subordinate) ed
eventualmente i correntisti con depositi oltre i 100 mila euro. E’ il famoso “bail
in” per il quale ci hanno rimesso 350 milioni i 13.500 risparmiatori delle
quattro banche locali mandate in “risoluzione” dal governo con un decreto a novembre
2015.
Al sacrificio di azionisti e risparmiatori
si deve aggiungere però il soccorso del sistema bancario, che contribuisce al
Fondo nazionale di risoluzione, che dovrebbe raggiungere in otto anni un attivo
di 5,7 miliardi e a cui devono contribuire tutte le banche non in crisi.
Dovrebbe quindi essere finanziato con i loro utili e riserve, ma torna comodo,
evidentemente, farlo pagare ai clienti. Anche perché il governo ha chiesto alle
banche italiane di anticipare 4 rate annuali al Fondo (e ora si appresta a
chiederne una quinta).
Tre principali gruppi bancari italiani
hanno scaricato la spesa sui clienti già a partire dall’anno scorso. Ubi banca ha previsto a fine 2016 un
aumento di 12 euro annuo nei conti correnti, i correntisti di Banco Popolare, hanno invece pagato una
tantum, di 25 euro; il contributo graverà nella voce: “Spese fisse di
liquidazione”. Unicredit, si era già
portata avanti a luglio, rincarando i costi di alcuni conti di 10-12 euro.
Tutte hanno motivato l’aggravio citando interventi legislativi che
costituiscono “giustificato motivo per un aumento”.
Senza “giustificato motivo” le norme
bancarie vietano le modifiche unilaterali dei contratti. Ma visto che le banche
di cui si parla sono tutte in attivo, che il prelievo sia giustificato è
alquanto dubbio. Soprattutto considerando che i costi per i correntisti italiani sono già i più alti d’Europa: in media 253 euro l’anno, oltre il doppio rispetto alla media Ue di
112. Un sistema per difendersi dai rincari c’è: cambiare banca. Il Testo Unico bancario prevede che in caso di variazioni unilaterali il cliente
possa, entro 60 giorni dal ricevimento
della comunicazione, recedere dal
contratto senza spese. Visto l’andazzo, il rischio è però che il cliente si
trovi, prima o poi, un aggravio di costi anche sul nuovo conto.
Sempre in tema di vessazioni allo
sportello, va segnalato che le banche italiane hanno reintrodotto, con effetti
a partire dal 31 marzo prossimo, l’anatocismo, cioè il calcolo degli interessi
sull’importo degli interessi scaduti, un comportamento che è stato dichiarato
illegittimo da due sentenze della Cassazione, nel 2004 e nel 2010. In pratica,
l’escamotage per reintrodurre l’aggravio è quello di fare sottoscrivere al
cliente un’autorizzazione all’addebito: la cosa è stata resa possibile grazie a
un emendamento del Pd infilato a marzo 2016 nel decreto che ha riformato le
Banche di credito cooperativo. L’associazione dei consumatori Adusbef, che sull’argomento
conduce da anni una battaglia, è in possesso di comunicazioni delle banche in
cui si insinuano rischi per i clienti che non sottoscrivono: sospensione o
revoca degli affidamenti e blocco del conto corrente.
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