Nella migliore tradizione parlamentare
italiana: certi privilegi, certe storture non si toccano. Vanno mantenute.
Ecco quindi che il decreto sui salvataggi
delle banche non introduce la decenza. Quella che vorrebbe un ridimensionamento
degli stipendi dei manager che guidano istituti aiutati con soldi pubblici, l’introduzione
di nuove regole sugli stipendi dei manager, la possibilita per lo Stato di
avviare autonomamente azioni di responsabilità nei confronti dei “manager” che
hanno portato una banca al dissesto.
Continuate così, che il 40% alle prossime
elezioni non lo vedete manco con il telescopio…
da: Il Fatto Quotidiano –
di Mauro Del Corno
Il
testo si limita a passare la palla, sgonfia, al Tesoro. Nessun obbligo di
ridurre gli stipendi dei manager che guidano istituti aiutati con soldi
pubblici. E non è passata la mozione ispirata al modello Usa: prevedeva tra
l'altro che i premi potessero essere versati solo dopo il recupero dei fondi
erogati dallo Stato. Che avrebbe avuto anche il potere di avviare autonomamente
l'azione di responsabilità contro i responsabili del dissesto
Fino a venti miliardi di debito pubblico
aggiuntivo per salvare banche in difficoltà ma niente, o quasi, per quanto
riguarda gli stipendi dei manager degli istituti aiutati dai contribuenti. Su
questo punto, un po’ a sorpresa, il decreto “salva risparmio” si limita infatti
a passare la palla, sgonfia, al Tesoro. Il testo, che nella serata di lunedì 13
ha avuto il via libera delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera senza
modifiche rispetto a quanto approvato dal Senato
con la fiducia, nonostante le
146 proposte emendative, approderà in aula martedì mattina e si limita ad
affermare che il ministero dell’Economia potrà subordinare la sottoscrizione
del capitale ad alcune condizioni, tra cui l’introduzione di un tetto
alla retribuzione complessiva dei membri del consiglio di amministrazione
e dell’alta dirigenza dell’istituto. Dunque una semplice facoltà e non un
obbligo.
Eppure nel corso dei lavori parlamentari di
mozioni in merito ne erano state presentate diverse, alcune anche approvate in
Commissione. Una mozione della minoranza Pd prevedeva ad esempio un tetto
massimo di 294mila euro lordi per la busta paga di amministratori delegati e
presidenti “salvati”. Un’altra del Movimento 5 Stelle e di Sinistra italiana
contemplava il divieto di erogazione dei bonus e un taglio del 30% allo
stipendio. Forza Italia proponeva di azzerare la parte variabile della
retribuzione. La mozione che aveva coalizzato attorno al suo testo i maggiori
consensi, forte anche del supporto di alcuni ministri tra cui Carlo Calenda,
era però quella approvata lo scorso 11 gennaio.
Una proposta dettagliata e sviluppata su
tre punti chiave: nuove regole sugli stipendi dei manager, possibilità per lo
Stato di avviare autonomamente (quindi senza bisogno del via libera
dell’assemblea dei soci) un’azione di responsabilità nei confronti dei
dirigenti che hanno condotto una banca al dissesto, decadenza degli accordi
relativi alle buone uscite dei dirigenti che abbandonano l’istituto. La parte
dedicata agli stipendi è modellata sui principi del Tarp (troubled asset relief
program) statunitense, il piano da 700 miliardi di dollari varato nel 2008 per
salvare il sistema bancario a stelle e strisce colpito dalla crisi dei mutui
subprime. Quindi per le banche aiutate dallo Stato gli stipendi devono essere
legati per una parte significativa ai risultati dell’istituto e ogni forma di
bonus o incentivo può essere erogata solo dopo che lo Stato abbia recuperato
quanto erogato. Nulla di tutto questo ha però trovato posto nel decreto
licenziato da palazzo Madama.
E’ probabile che il ministero dell’Economia
qualche sforbiciata deciderà di farla anche perché, almeno in teoria, esistono
anche indicazioni europee su questo punto. Una comunicazione del 2013 della Commissione
Ue sugli aiuti di Stato alle banche specifica infatti che lo stipendio
dell’amministratore delegato non dovrebbe superare di 15 volte il salario medio
nazionale o di 10 volte il salario medio della banca. La Commissione aggiunge
che eventuali indennità di licenziamento non dovrebbero mai andare oltre quanto
previsto contrattualmente.
Naturalmente i primi sulla lista dei
possibili tagli sono i vertici di Mps di cui una volta completato il
salvataggio da 6,6 miliardi di euro il Tesoro dovrebbe diventare azionista con
il 66% circa. Marco Morelli, che non ha responsabilità per il dissesto ma che
oggi ricopre la doppia carica di amministratore delegato e direttore generale
percepisce un compenso di 1,4 milioni di euro lordi l’anno. Ha ricevuto una
“buona entrata” di 300mila euro e nel caso venisse mandato via senza una giusta
causa avrebbe diritto a 24 mensilità. Il manager, che ha deciso di devolvere
200mila euro della sua retribuzione al fondo di solidarietà per i dipendenti
del gruppo, ha affermato qualche giorno fa l’intenzione di restare alla guida
del Monte anche se il suo compenso verrà abbassato. “Preferisco che sia ridotto
il mio stipendio in maniera pesante ma che vengano tutelate figura di manager
che sono importanti per la banca”, ha affermato il manager. Il ministro
dell’Economia per ora si è limitato a ribadire la fiducia nell’attuale
management. Senza affrontare il tema della retribuzione.
A inizio gennaio i sindacati della banca
senese hanno chiesto al ministro di tagliare vigorosamente le buste paga dei
vertici applicando il tetto di 240mila euro previsto per i manager pubblici di
società non quotate. Negli anni passati diversi Stati che hanno effettuato
salvataggi bancari hanno contestualmente previsto interventi sulle buste paga
dei vertici. Oltre ai già citati Stati Uniti, tetti alle retribuzioni sono
stati fissati in Spagna (300mila euro lordi per le banche nazionalizzate,
600mila per quelle che hanno avuto solo prestiti), Germania (500mila euro) e Irlanda
(anche in questo caso 500mila euro).
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