Se mi dicessero che devo assolutamente scegliere
uno, uno solo tra gli artisti che preferisco, che amo in assoluto, non ho
dubbi: scelgo Luigi Tenco. Un genio, un immortale. Luigi Tenco è fuori gara. E’
fuori competizione. Discende in linea diretta da Dio.
Non riesco a immaginare la mia vita senza
le canzoni di Luigi Tenco.
Quella
rivoluzione chiamata Luigi Tenco
Fascinoso,
anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace
di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27
gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola.
Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone
di Alberto
Dentice
Se non fosse mai andato
al festival di Sanremo,
oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni,
la
stessa età di Celentano
e
chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27
gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua
vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”,
accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre
leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e
dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a
Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per
sbaglio mentre giocava con la sua pistola)
o di omicidio eseguito su commissione di oscuri
mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto.
Una mole impressionante di libri e di inchieste
giornalistiche ne hanno
evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato.
evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato.
Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco,
nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una
mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna
a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e
appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel
1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95
Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’
dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine,
che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival
trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e
Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso
il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone
dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i
generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità.
L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico
De Angelis, il direttore artistico
che
ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto
comitato di esperti e appassionati.
Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa,
l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a
Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”.
Sul palco fra gli altri
anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato
il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo
spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel
momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra
i giovani musicisti e i
cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad
Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno
altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il
toscano Motta, cui
è
stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre
si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”,
ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco?
Certo è che quel gesto estremo, notava anni
fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era
sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica
leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e
Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo
Sanremone. Perché la sua ombra continua
a dividere come quella di
un angelo sterminatore.
Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un
anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del
proprio fascino, jeans e maglione
nero
d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una
profonda fragilità. Insomma,
è
uno che se la tira. Oltretutto
il
Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita
addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di
intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe
caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca,
spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza,
specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia.
All’immagine del pessimista introverso da
sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante
creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un
debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma,
Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione
ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che
si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni,
la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono
innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare».
Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è
il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno
musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto
di De André, ma proprio
lui, genovese d’adozione (è nato
a
Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico
del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse”
contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli
era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica
e non solo in quella, sta
cambiando tutto.
L’avvento
di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha
impresso
al
mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova
casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei
capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono
ascoltare
i
Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma
bravissimi.
E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis
Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di
Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la
Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal
jazz
e
ha trovato in Paul Desmond
il
suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando
il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro
vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella
farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti
ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia.
Proprio al Piper, però, il Nostro deve
rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto
piuttosto una questione generazionale. Da una parte
i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a
25 anni si sente già vecchio, e quando
nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra
i primi
a
schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono
che i capelloni non
lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi
proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni
di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo
di Tenco alla causa, “Ognuno
è
libero”, non si distingue
per
originalità.
Chissà cosa pensano davvero di lui i
giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi
la giuria del premio Tenco.
I
cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club
denunciando che l’iniziale «professionalità»
si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi
litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una
gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.
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